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Grecia, le gabbie dei piccoli profughi siriani

Nello Scavo 12 maggio 2019
A Moria nel campo greco i minori non accompagnati vivono reclusi. Il governo: «Accoglienza ottimale». E ai bambini invalidi, disabili, ammalati cronici è vietata l’uscita dal reticolato.

L’Europa muore nel petto di Achmad. Basta vederla la lunga cicatrice sul torace: quel bimbo di sei anni non dovrebbe stare in una gabbia per profughi. L’Europa muore negli occhi neri di una bimba afghana: la misera protesi al piede la fa sembrare una bambola rotta che qui non camminerà né guarirà mai.
Nel girone dei bimbi migranti le autorità hanno deciso che andavano trattati come canaglie a cui sorridere al di qua delle inferriate. Dicono che è per la loro sicurezza che devono stare reclusi come le fiere allo zoo. C’è una grata perfino tra loro e il cielo, casomai si arrampicassero fuggendo tra i tetti arroventati dei container che alla stampa vengono raccontati come “residenze”, ma che in realtà sono celle di lamiera.
Nessun essere umano dovrebbe stare qui, che poi è Europa, mica la Libia. 
Il campo di Moria è una collina che dall’alto discende verso i gironi dei dannati d’ogni guerra: Yemen, Afghanistan, Iraq, Siria, Palestina. Mani affettuose hanno verniciato con colori vividi le scatolette di ferro dentro a cui alloggiano adulti e bambini. Mani ipocrite hanno ordinato e pagato milioni di euro a un Paese in crisi perché tenesse al confine i migranti che salpano dalle vicine coste turche e poi si arrampicano sulle scogliere dell’arcipelago. 
I cantori della favola di Stato sanno di dover mentire ai giornalisti: «In Grecia ci sono 70mila migranti ospitati – lo ha davvero detto incontrandoci un funzionario di Atene – in condizioni del tutto ottimali». Dove per ottimale si intende un solo medico per 4mila persone. Per non dire dei colloqui per esaminare le richieste d’asilo. 
Mohamad, 24 anni, è arrivato dalla Yemen con la sua famiglia di otto persone un mese fa. La commissione per l’asilo non potrà ascoltarlo prima del 2021. Il campo di Moria è il più sorvegliato. Doppia rete metallica di quattro metri sovrastata dal filo spinato. Vigilanti che pattugliano all’esterno e militari con manganello in vista all’interno. Il blocco dei prigionieri ragazzini è guardato da polizia e operatori. Questi ultimi provano a stemperare la tensione. I pasti vengono distribuiti come nel più organizzato dei penitenziari: una gabbia alla volta. 
Naturale che dopo qualche settimana osservando il cielo attraverso la trama del fil di ferro c’è chi provi a togliersi di mezzo, e chi cerca un anestetico ingurgitando pessimo liquore o dosi di droga pagate chissà come e, non di rado, al prezzo di promesse indecenti. Daniela e le altre volontarie di Sant’Egidio e della Caritas greca, intanto si affrettano a fotografare i documenti dei casi più difficili per i quali chiedere un ponte umanitario urgente verso altri Paesi Ue. Annotano, accarezzano, e sorridono. Ma si vede da lontano che il sorriso è solo un modo diverso di piangere. 
«Mio figlio ha avuto un nuovo attacco di cuore l’altra sera», racconta il padre mostrando la cicatrice di un difficile intervento cardiologico. Il piccolo afghano, nato negli accampamenti iraniani dove la famiglia cercava un riparo per sfuggire all’età della pietra imposta dai talebani, è venuto al mondo con una grave malformazione cardiaca. La mamma, minuta e ingobbita dal peso di aver messo al mondo un maschio fragile, sparpaglia sulla ghiaia tutti i documenti dei dottori che lo hanno visitato e operato in qualche ospedale d’Oriente.
Li tiene nascosti dentro a una sacca di stoffa. Non gli importa del passaporto che non ha mai avuto, ma sa che la vita del suo Achmad può dipendere da quelle scartoffie. Poi, sopraffatta dal racconto della disgrazia, si copre il volto trasformando il velo in un cappuccio. E piange. «Abbiamo chiesto alla polizia di portarci dai dottori, in ospedale. Io – scandisce il padre che per un momento ritrova lo spirito fiero dei combattenti tagiki – posso anche restare qui dentro per tutta la vita, ma lascino che almeno lui e sua madre possano andare via». 
Con il ghetto di Moria stipato di gente, la buona notizia è che non c’è più posto per altri sventurati. 
Così chi sbarca (già più di 7mila quest’anno in Grecia) viene condotto nella tendopoli informale di “Olive Three”, sorta tra gli uliveti lontani dalla spiaggia. Niente di più scomodo: si dorme sotto le tele cerate dell’Onu, ci si apparta da qualche parte per i bisogni, si rischia di venire travolti dalle risse notturne tra uomini che hanno rinunciato ai precetti del Ramadan abbandonandosi agli effetti di Bacco. In compenso durante il giorno si può andare liberamente in giro per le strutture di animazione gestite da volontari di tutta Europa. Come Frederic, trentenne svizzero coi sandali da francescano e gli occhialini da archivista. Corsi di musica, la scuola elementare per i bambini, il giardinaggio, una biblioteca con mille titoli allestita in un vecchio furgone in disarmo, un capanno per riparare tutto ciò che è guasto, e accanto il ritrovo per sole donne vietato agli uomini». Gli attivisti hanno ottenuto questo spazio perché si trova lontano dai centri abitati e l’andirivieni di profughi non impensierisce i manager del turismo balneare. «Dai campi a qui sono 45 minuti a piedi – spiega Fredreric indicando il sentiero tutto in salita – ma d’estate donne e bambini non verranno perché fa troppo caldo».
A Moria, intanto, la sera giunge nell’incertezza di sempre. Prima di lasciare il perimetro militarizzato, incontro al cardinale Elemosiniere arriva un ragazzo di 14 anni. Tiene in braccio la sorellina di nove mesi. La piccina non sorride e piange. La caviglia destra è coperta da una protesi di plastica rosa scolorita dal sole. «Devo portare la mia sorellina fuori da qui – implora –. Nessuno la sta curando. E quando viene qualche dottore non può fare nulla, perché qui non c’è niente che si può fare per lei». «Nel campo di Moria non c’è giustizia», aveva detto il sindaco Spyros Galynos incontrando la delegazione vaticana arrivata per gettare le basi per nuovi corridoi umanitari. Incontrando il cardinale Konrad Krajewski, inviato dal Papa con la missione organizzata dalla Sezione Migranti e Rifugiati della Santa Sede e dalla Comunità di Sant’Egidio, gli aveva però presentato una preoccupazione personale: «Le condizioni del mio cuore peggiorano, i bravi medici stanno facendo il meglio, ma vi chiedo una preghiera».
Deve aver ragione il vecchio borgomastro delle Pleiadi. «Non c’è giustizia» se lui può sperare nella prontezza dei dottori e i piccoli profughi non hanno diritto neanche di sperare di farcela. Pur nell’Ue, all’interno del perimetro sorvegliato dai militari con i manganelli in vista, si vive nell’incertezza dei diritti.