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Se l’Italia va in pezzi, al Sud resteranno solo porti chiusi e baraccopoli di migranti

Aldo Premoli 04/01/2019
Questa volta non si stratta solo annunci. Sindaci disobbedienti tre dei quali di capoluoghi di regione del Sud (Palermo, Napoli e Reggio Calabria) e 13 regioni in attesa dello studio per un “regionalismo differenziato promesso da Palazzo Madama per il 15 febbraio sono molto più di un segnale.

Tutto è cominciato con il rifiuto del sindaco di Palermo di applicare una delle norme più assurde del cosiddetto Decreto Sicurezza: quella che nega la possibilità di concedere la residenza a chi pure ha già un permesso di soggiorno. L’articolo 13 stabilisce infatti che quest’ultimo non basterà più per iscriversi all’anagrafe e quindi avere la residenza e il conseguente accesso al Servizio Sanitario Nazionale. La norma colpisce anche i minori non accompagnati, e gli stranieri che hanno il permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Non è il primo dei pasticci di questo Governo che ci ha ormai abituati al gioco della pietra scagliata e della mano nascosta (con il raddoppio dell’Ires alle Associazioni di volontariato inserito nella Finanziaria ma poi smentito in conferenza stampa da Conte o con “le manine” denunciate da Di Maio per bloccare il Decreto fiscale).
Ora il fronte dei sindaci contrari alla norma si sta allargando. Partito dal Sud (Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Pozzallo) fiancheggiato dal Presidente dell’Anci Antonio Decaro che chiede con urgenza a questo proposito un tavolo di confronto con il Governo, e ha raggiunto Firenze, Parma e Milano.
Ci sono pure sindaci leghisti schierati a satellite intorno al leader del loro partito: non si capisce che cosa intendano fare in concreto di fronte agli effetti di un decreto che riverserà per le strade gli espulsi dagli Sprar e dai Cas trasformati ex lege in clandestini senza aver previsto nei loro riguardi nessuna incisiva azione di rimpatrio. Annunci e demagogia però servono a poco davanti alle ricadute di un problema come questo. Il diniego di accesso al Servizio Sanitario Nazionale per individui in condizioni particolarmente svantaggiate costituisce di per sé un minaccia generalizzata per l’intera comunità dei risiedenti visibili o invisibili ai computer dell’anagrafe.
Quanto poi alla loro sussistenza le opzioni per gli sfrattati sono solo due. La prima: andare ad incrementare baraccopoli illegali come quelle esistenti nelle campagne tra Rignano Garganico e San Severo, nel Foggiano, o Rosarno in Calabria dove le presenze proprio per effetto del “Decreto Salvini” in meno di un mese sono già raddoppiate rispetto a quelle che negli anni passati. Situazione destinata ad aggravarsi ulteriormente quando finirà la raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro e centinaia di braccianti torneranno a radunarsi in queste baraccopoli: un grande quantitativo di “merce umana” a disposizione dei caporali. La seconda è pure peggiore della prima. In un Sud senza lavoro per gli stessi italiani c’è un solo altro modo di arrangiarsi: incrementare la manodopera della microcriminalità gestita da reti tutte italiane o da nascenti reti criminali d’importazione.
Altro che “Decreto Sicurezza”: stando ai ricercatori Ispi da 60 a 120.000 nuovi clandestini popoleranno i marciapiedi o si getteranno nelle campagne italiane in questo 2019. Una situazione preoccupante che dovrebbe essere al centro dell’attenzione di chi governa al Centro o in periferia del nostro Paese. Perché quanto accade in Puglia e in Calabria è facilmente replicabile e in alcuni casi già in atto in Sicilia.
Eppure non si ha traccia di prese di posizione di autorità di primo piano come il Salvo Pogliese (FI) primo cittadino di Catania la città dell’affaire Diciotti e di un porto che ha visto negli anni scorsi sbarcare decine di migliaia di naufraghi. Come appare ondivaga pure la posizione del Governatore dell’isola Nello Musumeci (Fratelli d’Italia) a capo di una regione che come nessun’altra è stata investita dell’ondata migratoria proveniente dalle coste libiche. Opportunismo o disinteresse?
Tanto più che al Decreto Sicurezza in arrivo c’è una seconda norma fortemente voluta dalla componente leghista di questo Governo che potrebbe concorrere a creare la tempesta perfetta su questa nostra Penisola. La presentazione dello Studio sul “regionalismo differenziato” atteso per metà febbraio apre il via a trattative singole con i Governatori di 13 regioni.
“È chiaro che la Lega è vicina ai governatori e ai sindaci: è la nostra ragione di esistenza”. Ha dichiarato Salvini al Corriere della Sera. Subito confortato dal Governatore della Lombardia Fontana che su Repubblica lo stesso giorno ha precisato che se il M5S dice “no” all’autonomia regionale “cade il Governo”.
Veneto (Zaia, Lega) Lombardia (Fontana, Lega) ed Emilia Romagna (Bonaccini, PD) sono state le prime 3 regioni ad avviare il processo Zaia il primo in assoluto si è espresso in maniera chiarissima: vuole la stessa autonomia di cui gode il Trentino-Alto Adige, che in soldoni significa tenersi i 9/10 delle imposte ricavate per reinvestirle sul proprio territorio. Senza mandarle prima a Roma per essere redistribuite secondo necessità sul territorio nazionale come invece accade attualmente. Più sfumata la posizione di Bonaccini che richiede denari da gestire direttamente senza mettere però in discussione la questione dei cosiddetti “fondi residuali”.
Perché appropriarsi direttamente dei “fondi residuali” da parte delle tre regioni con il più alto Pil italiano ha effetti collaterali precisi: significa inevitabilmente meno soldi al Sud da investire per scuole, viabilità, sanità, imposte sui servizi, gestione dl territorio. Esattamente tutto quello di cui ha più bisogno.
Hanno ragione gli uomini della Lega a sbandierare queste nuove possibili autonomie come conquiste non più differibili? Agli occhi dei loro elettori sono perfettamente coerenti con il programma separatista originario della Lega Padana di Umberto Bossi. “La Lombardia è una nazione, l’Italia è solo uno stato… I lombardi sono trattati da schiavi, la Lombardia è una vacca da mungere […] I partiti sono lo strumento attraverso cui i meridionali gestiscono lo stato”.
Era il 1985, ma dodici anni dopo il pensiero di Bossi non era cambiato: “Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo” [dal discorso al comizio del 26 luglio 1997 a Cabiate (CO) per la festa della Padania].
Il lifting al nome (da Lega Nord a Lega) e le pose accoglienti verso il Sud del nuovo leader nulla tolgono al sentimento profondo dei suoi elettori. Un esempio su tutti: Salvini si è recato più volte nella sede di Palazzo egli Elefanti a Catania dopo l’avvento dell’attuale giunta di destra alla guida della prima città italiana con un dissesto economico certificato. Ci ha poi mandato il suo sodale Candiani (Sottosegretario all’Interno e Commissario della Lega in Sicilia), anche lui ha ascoltato e rassicurato, ma di denari da Roma non ne sono mai arrivati. Ve la immaginate la reazione di un elettore di Pavia o Lodi di fronte alla decisione di versare di 1.6 miliardi di euro (tale è la cifra del dissesto accumulato in decenni di cattiva gestione) per salvare Catania?
I quadri della Lega sono in realtà intenti a fare ben altro: ad esempio accordi – poco propagandati ma crescenti – tra alcune regioni del Nord Italia e alcune del Sud Europa (Austria, Baviera, Svizzera). Accordi riguardanti sanità, viabilità, distribuzione, banche, tributi: esattamente quello di cui avrebbero bisogno di incrementare le regioni del Sud del nostro Paese. Dunque la logica è simmetrica ma invertita (e micidiale) rispetto alle esigenze reale di un Paese.
Per questo pare sempre più difficile capire l’eterno sorriso di convenienza stampato sul viso dell’altro semi-premier e leader grillino Di Maio che da sempre si erge a sostenitore di un elettorato “sudista”, che lo ha votato nella speranza di risolvere più o meno bene ma subito alcuni bisogni primari. Ma Di Maio non è evidentemente Giolitti, Fico non è Cavour e Di Battista non è Garibaldi.
Il teatrino non regge più. Gli apprendisti stregoni rischiano di rovesciarsi addosso il pentolone. E il Paese di andare questa volta in pezzi per davvero.