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L’Arabia Saudita non è un Paese per donne

Nicola Lofoco 04/01/2019
L’ambasciatore saudita a Roma, con una dichiarazione trapelata nelle ultime ore, è stato chiaro: in occasione dell’incontro di calcio Juventus–Milan, valevole per la Supercoppa italiana di calcio, che si terrà a Gedda il 16 gennaio prossimo, le donne potranno andare allo stadio da sole, anche se non accompagnate da alcun uomo.

Le sue affermazioni sono state certamente opportune e fatte al momento giusto. Cercare di spegnere le numerose polemiche, anche politiche, che si erano fatte largo negli ultimi giorni, circa il divieto alle donne di recarsi allo stadio da sole, imposto dalle autorità di Riad, era doveroso.

Normalmente, negli Stadi sauditi, vi sono esclusivamente due settori: uno riservato alle famiglie ed un altro per soli uomini. È molto probabile, quindi, che per le donne che vorranno godersi lo spettacolo senza alcuna compagnia maschile, vengano assegnati dei settori specifici. Inutile negare che questa notizia ha riportato a galla il sempre spinoso tema dei diritti negati alle donne in Arabia Saudita.
Secondo uno studio inerente l'”indice delle pari opportunità”, realizzato dal World Economic Forum nel 2017, il Regno Saudita è al 138esimo posto su 144. Qualche piccola speranza sulla possibilità che Riad potesse risalire la classifica era arrivata proprio nel settembre 2017, quando su iniziativa del principe Mohammad Bin Salman era stato concesso alle donne di poter ottenere una patente e guidare un’auto ( diritto sino ad allora completamente negato). Ma, nonostante questa timida apertura, la vita per le donne saudite resta difficile e carente nei diritti più elementari. Elenchiamo qui i casi più eclatanti:
Per potersi sposare hanno sempre bisogno del consenso del proprio “guardiano”. Un matrimonio d’amore deve per forza passare, per ogni donna, dal consenso di un uomo (padre o fratello che sia). Un autentico affare di Stato si verifica qualora una donna voglia sposare uno straniero: è necessaria, infatti, nientemeno che l’autorizzazione del Ministero degli Interni. Le unioni “combinate” sono ufficialmente bandite, ma spesso si sono avute denunce e testimonianze che ci raccontano il contrario.
Moltissime zone aperte al pubblico sono letteralmente divise in due: una per le donne ed una per gli uomini. Accade nelle spiagge, nei locali e sui mezzi pubblici, nei ristoranti e nei centri commerciali.
Fino al 2012 alle donne saudite era inibita qualsiasi tipo di attività sportiva. Alle Olimpiadi di Londra fu concesso a sole due di loro, dopo ripetuti appelli del Comitato Olimpico Internazionale, di rappresentare la propria nazione nelle discipline di judo ed atletica. Intraprendere qualsiasi sport resta, ancora adesso, molto complicato per tutte le saudite.
L’accesso ai mezzi pubblici è loro vietato in quasi tutta la Nazione. In alcuni casi, come su treni o bus della Capitale, vengono relegate in piccoli scompartimenti isolati dagli uomini. Non possono, assolutamente, prendere un taxi da sole.
Non hanno diritto all’autonomia finanziaria e non possono, di conseguenza, gestire alcuna somma di danaro. È quindi proibito alle donne aprire un conto in banca senza il permesso di un uomo.
Accanto a tutto questo bisogna ricordare che in quasi tutta l’Arabia Saudita vige l’obbligo di indossare, per tutta la popolazione femminile, l’abito “Niqab”, il quale copre il corpo dalla testa ai piedi, lasciando scoperti solo gli occhi. Nel 2013, la King Khalid Foundation e l’agenzia pubblicitaria Memac Ogivly hanno intrapreso una forte campagna di sensibilizzazione sul tema della violenza sulle donne in Arabia Saudita.
Un argomento che per troppi anni e per troppo tempo è rimasto, purtroppo, un vero tabù. Staremo a vedere se il prossimo 16 gennaio le donne potranno recarsi allo stadio di Gedda in piena autonomia, come annunciato anche dalla Lega Calcio italiana di serie A. In ogni caso, il tema dei diritti violati delle donne saudite non potrà risolversi mai grazie ad una partita di calcio. Quando l’arbitro fischierà la fine dell’incontro bisognerà ricordarselo.