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GIBUTI. L’invisibile rotta migrante del Corno d’Africa

Alessandra Mincone 9 novembre 2018
L’incontro di tratte opposte: gli yemeniti che fuggono dalla guerra e gli africani che tentano la via del Golfo. Per tutti un sogno che si trasforma in incubo: i primi finiscono in campi profughi pressoché senza aiuti, i secondi nelle mani di contrabbandieri e milizie. Sotto gli occhi degli eserciti di mezzo mondo.

Ci sono viaggi che uomini e donne affrontano senza sapere se l’arrivo a destinazione ne varrà lo sforzo. In particolare c’è una rotta che unisce le strade dei rifugiati politici dall’Etiopia, Eritrea, Somalia e Yemen, in una terra dove cercano rifugio i profughi africani e quelli arabi, grazie allo stretto di Bab el Mandeb, che separa l’Africa dall’Asia.
La destinazione è la Repubblica di Gibuti, ex colonia francese nel Corno d’Africa, che dista 30 chilometri da uno dei territori della penisola arabica, dove si combatte un aspro conflitto che vede morire di fame e povertà, e di bombardamenti da parte degli emirati arabi, migliaia di adulti e bambini yemeniti ogni giorno che passa. Lo scorso anno oltre 35mila yemeniti sono riusciti a scappare a Gibuti, mentre nel 2015 i profughi africani che sono arrivati in Yemen, attraversando lo stesso deserto, superavano i 90mila. Le crescite e i cali dei flussi migratori corrispondono alle situazioni di crisi economiche e politiche che vivono le regioni intorno alla Repubblica di Gibuti ed è per questo che per africani e arabi la rotta del deserto diventa l’unica traversata possibile per scappare anche solo temporaneamente dalle tragedie umanitarie in corso.
Ma è un viaggio rischiosissimo, quello per avvicinarsi al campo profughi di Marzaki, o per arrivare oltre i confini del Mediterraneo, dove non è escluso che gli immigrati possano essere rapiti e torturati dai trafficanti interni che gestiscono i flussi dall’oceano Indiano all’Europa. Sia i profughi arabi, sia quelli africani camminano nel deserto di Dancalia, sopravvivendo a temperature oltre i 50 gradi d’estate, e attraversando le tempeste di sabbia, con venti che soffiano oltre 60 km all’ora e aprono la stagione estiva producendo innumerevoli morti, ma i cui numeri non appaiono in alcun registro delle Nazioni Unite.
Per gli yemeniti che riescono a raggiungere il campo profughi di Marzaki, al peggio non c’è mai fine. La speranza per intere famiglie di trovare strutture di accoglienza adeguate e un lavoro diventa subito un sogno in frantumi. Il campo profughi non è provvisto di strutture ospedaliere né scolastiche, la disoccupazione sfiora quasi il 50% e gli aiuti umanitari messi a disposizione dalle Nazioni Unite e dalla Fondazione di aiuti dell’Arabia Saudita non bastano neanche a sfamare tutti gli uomini, le donne e i bambini che ci abitano. Secondo alcune ricerche giornalistiche fino a febbraio del 2018, mentre più di un migliaio di yemeniti si preparavano a partire verso il campo, venivano allestite 300 nuove tende, ma senza disposizioni urgenti di forniture mediche e collegamenti elettrici.
A questo dramma si aggiungono i gravi traumi vissuti da giovani e bambini che abitano il deserto con animali selvatici, iene, lupi, cammelli, scorpioni: un vero incubo quotidiano che ferma l’appetito e lascia spazio solo alla paura e alla depressione. Come testimoniato da Al Jazeera, il paradosso più assurdo è che, se potessero, gli abitanti della tendopoli di Marzaki tornerebbero subito in Yemen: “Nonostante le barbarie, è comunque meglio che stare un secondo in più in questo campo”. Ormai il 70% dei profughi di Marzaki ha scelto di abbandonare il campo e in molti casi di fare ritorno in Yemen.
Per gli immigrati africani che riescono a varcare le porte dell’Arabia Saudita, la situazione non è di certo migliore. Nella stragrande maggioranza dei casi sono gli uomini, eritrei ed etiopi, che affrontano il viaggio a piedi e spesso perdendo le scarpe, in cerca di un lavoro che non troveranno. Le donne che riescono a partire vengono trascinate su furgoni comandati dai trafficanti delle tratte di schiavitù e prostituzione.
Molti etiopi che scappano a seguito di manifestazioni antigovernative, e a causa della rappresaglia anti operaia, attendono accampati in centinaia sotto alberi di acacia presso il villaggio di Fantahero, a ovest di Gibuti, gli scafisti che li porteranno illegalmente in mare verso l’Arabia Saudita, rischiando di essere catturati dal proprio governo già quando escono fuori di casa.
Gli africani che dal Corno d’Africa viaggiano verso lo Yemen è probabile che spesso non siano a conoscenza dei conflitti arabici o che si affidino ai trafficanti speranzosi di trovare lavori anche illegali per sopperire ai debiti nel proprio paese. Le loro esperienze possono finire con deportazioni, detenzioni o torture mortali da parte di gruppi yemeniti o contrabbandieri a cui non vengono pagati i debiti del viaggio. Mentre quando approdano in Arabia Saudita, o in altri paesi del Golfo, gli immigrati non hanno con sé i propri passaporti perché vengono sequestrati dai datori di lavoro per favorire forme di ricatto e sfruttamento, e garantirsi la manodopera a basso costo, violando le convenzioni internazionali sul lavoro.
Rispetto ai profughi yemeniti, gli immigrati africani tentano più volte lo stesso viaggio dopo essere stati deportati e ogni volta tentano un cammino più lungo e pericoloso per non ritornare in Africa. Tutto questo accade mentre nel centro abitato stanziano oltre 15mila militari stranieri: francesi e americani, ma anche italiani, cinesi, giapponesi e di altre nazioni dell’UE che sarebbero impegnate con le flotte internazionali di contrasto alla pirateria.
Per gli americani, Gibuti è la base militare più costosa, affittata per oltre 60 milioni di dollari all’anno, all’indomani del ritiro delle truppe in Iraq e della riduzione dei contingenti bellici in Afghanistan: oramai rappresenta la base Usa per il contrasto al terrorismo in Africa e in Medio Oriente. Per i giapponesi, Gibuti è la prima base militare estera dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per i cinesi, Gibuti è un enorme porto commerciale di primaria importanza, dove transita il 50% dell’import cinese di petrolio così come l’import del traffico marittimo mondiale. I nuovi investimenti da Pechino, infatti riguardano nuovi terminal petroliferi e un porto logistico multifunzionale.
Ma nonostante gli ingenti capitali in movimento, a sintetizzare la condizione sociale degli abitanti di Gibuti è un disoccupato africano, ex ferroviere che ancora paga il prezzo di una disoccupazione molto al di sopra del 50%. Dichiarava ai mezzi stampa un anno fa: “Da qui è passato un secolo della nostra storia, dalla colonia fino all’indipendenza. Adesso tutto è cambiato. E ormai anche qui, in Africa, il futuro appartiene alla Cina”.