✊ SPECIAL NAKBA _ Nei campi profughi in Libano: “Benvenuto in Palestina”
Testo di
Giovanni D’Ambrosio, Foto di Raffaello Rossini,
Nena News, 15 mag 2018
Oggi di
persone ce ne sono tra le 20 e le 30mila, di cui circa la metà sono palestinesi
e gli edifici sono talmente alti e ravvicinati da non permettere alla luce del
sole di raggiungere il suolo. Siamo alla vigilia dell’anniversario della
Nakba, la “catastrofe”, ovvero l’istituzione dello Stato d’Israele e
l’occupazione della Palestina storica. La guerra del 1948 e le azioni
delle milizie sioniste hanno causato l’esodo e l’espulsione di più di 700mila
palestinesi nei paesi circostanti. Convinti di poter tornare nelle loro terre
finita la guerra, da settant’anni i rifugiati palestinesi e i loro discendenti,
divenuti col tempo circa cinque milioni, lottano generazione dopo generazione
per vedere riconosciuto il loro diritto al ritorno stabilito anche dal diritto internazionale
(e ribadito a varie riprese) dall’articolo 11 della risoluzione 194
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata l’11 dicembre 1948.
Jamila fa
parte della seconda generazione di rifugiati, ovvero la prima ad essere nata e
cresciuta in un campo rifugiati in Libano. È la direttrice del centro di
Chatila di Beit Atfal Assumoud, un’associazione palestinese nata nel 1976 in
seguito al massacro del campo di Tel al-Zaatar per opera dei falangisti,
partito cristiano di estrema destra famoso in seguito per il massacro di Sabra
e Chatila del 1982, con lo scopo di dare soccorso ai bambini palestinesi
rimasti orfani.
Jamila
non ha mai visto il suo villaggio, che dal 1948 è rimasto disabitato, ma si
sente comunque fortunata poiché i suoi genitori le hanno trasmesso i ricordi e
il sentimento di appartenenza a quella terra. “La prima generazione di
rifugiati sta scomparendo – mi dice – per questo noi abbiamo una responsabilità
ancora maggiore rispetto al passato di raccontare ai più giovani queste storie
e di non fargli dimenticare la nostra cultura. Da qui l’importanza della
commemorazione della Nakba e del lavoro che facciamo ogni giorno a Beit Atfal
Assumoud”.
In tutto
il Libano associazioni palestinesi e solidali si sono mobilitate con varie
attività per l’anniversario della Nakba e per riportare l’attenzione della
comunità libanese e internazionale sulla mancanza di giustizia sociale e di
diritti civili dei rifugiati residenti nel paese. È proprio lo scopo, ad
esempio, di una passeggiata in bicicletta organizzata da Heartbeats to
Palestine e appoggiata dalla campagna BDS che, attraversando il Libano da nord
a sud nel fine settimana dell’11 e 12 maggio, ha percorso 200 chilometri fino a
raggiungere il confine israeliano, in aperta polemica con il Giro d’Italia
fatto partire da Israele.
“Noi non
vogliamo la nazionalità”, mi ripetono alcuni collaboratori dell’associazione,
“noi vogliamo diritti. In Libano ci lasciano vivere, o sopravvivere, e nessuno
ci obbliga ad andarcene. Ma questa non è casa nostra, non abbiamo bisogno del
passaporto, abbiamo bisogno di lavoro e di poter vivere in pace”.
Nena News, 15 mag 2018
La
commemorazione tra i rifugiati palestinesi nel Paese dei Cedri: “La prima
generazione di rifugiati sta scomparendo, per questo abbiamo una responsabilità
ancora maggiore di raccontare ai più giovani la Nakba e di non fargli
dimenticare la nostra cultura”
Beirut – “Benvenuto in Palestina”, mi dice Kamal mentre mi
fa strada tra il labirinto di minuscole vie, spesso così strette da lasciar
passare solo una persona alla volta, che compongono il centro del campo di
Chatila. “Per noi tutto questo”, indicando con un gesto delle mani gli alti
edifici che ci circondano, “è come essere in Palestina, una Palestina
temporanea”. In effetti, superato il posto di blocco dell’esercito fisso nelle
vicinanze del campo, ovunque si posi lo sguardo si incontrano simboli che
rimandano alla Palestina.
Il
murales di un giovane Arafat sorridente sembra salutarci mentre ci avviciniamo
all’entrata del campo. Bandiere palestinesi sono sparse un po’ ovunque, sui
tetti degli edifici o sui balconi, insieme a quelle gialle di Fatah e a quelle
rosse del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Il campo si estende
su circa un chilometro quadrato ed è rimasto tale dall’anno della sua
fondazione nel 1949. Allora gli abitanti non erano più di 4mila e molti
ricordano i decenni passati richiamandosi curiosamente all’altezza degli
edifici. Spesso mi è capitato di ascoltare, “dovevano essere gli anni ’60,
quando Chatila era ancora alta due piani”.
Oggi
l’associazione si è estesa e lavora in tutti i campi del Libano, una decina, e
ha diversificato le sue attività incentrandole sul sostegno alle famiglie e
sull’educazione. Alla domanda che le pongo sul significato di questo giorno a
settant’anni dalla Nakba mi risponde: “Se tu chiedi a un bambino dell’asilo –
dice indicandomi i piani superiori – da dove viene, lui ti risponderà che è
palestinese, non libanese, e ti dirà anche il villaggio d’origine della sua
famiglia. Noi viviamo qui con i nostri corpi, ma le nostre menti sono ancora
nella nostra terra. Io, per esempio, sono di Yajur. Un piccolo villaggio nel
nord della Palestina, vicino a Haifa, accanto a una montagna che si chiama
Karmel, verde tutte le stagioni dell’anno. In primavera il villaggio è invaso
dal profumo dei fiori e il mare dista solo quindici minuti a piedi. Il fiume
Muqatta porta acqua fresca e dolce al villaggio; non come qui”, riferendosi
alle condizioni di vita insalubri del campo,“che l’acqua è salata e non
esistono spazi verdi. Per questo è difficile dimenticare, capisci? Sono giorni
difficili ma dobbiamo continuare a mantenere viva la speranza che un giorno
torneremo nella nostra terra”.
Il giorno
dopo l’intervista sono invitato al campo di Bourj el Barajneh per assistere
alle attività organizzate dall’associazione in vista del 15 maggio. Due
pullman, uno dal campo di Mar Elias e l’altro da quello di Chatila, portano
bambini e famiglie dei tre campi di Beirut a incontrarsi nel centro di Bourj el
Barajneh dove una sala è stata addobbata per l’occasione con le bandiere e i
colori palestinesi. L’atmosfera è quella di una chiassosa festa popolare.
Bambini e ragazzi si esibiscono, indossando vestiti tradizionali, in canti e
balli che ricordano la loro terra e rivendicano il diritto al ritorno dei
rifugiati. I discorsi dal palco improvvisato ripetono ciò che Jamila mi aveva
già spiegato il giorno prima. La trasmissione della memoria e l’accento posto
sull’identità e sulla cultura palestinese sono forme di resistenza pacifica
all’occupazione.
I
palestinesi in Libano vivono in uno stato di estrema marginalizzazione. Come mi
racconta Kassem Aine, direttore generale di Beit Atfal Assumoud, “i palestinesi
pagano le contraddizioni e le divisioni confessionali interne della società libanese.
Non abbiamo la cittadinanza, poiché avercela significherebbe cambiare gli
equilibri religiosi del paese incidendo sul sistema politico confessionale
presente, né abbiamo alcun tipo di riconoscimento politico e la maggior parte
di noi è soggetta a costanti discriminazioni. Al di fuori dei campi sono più di
una trentina i lavori che non possiamo praticare, come fare il medico,
l’ingegnere, o addirittura il tassista. Per poter lavorare al di fuori dei
campi serve un permesso che è molto difficile da ottenere, per cui tanti
palestinesi rinunciano a farne domanda. Non ci è inoltre possibile passare le
nostre proprietà legalmente acquistate in eredità ai nostri famigliari. La
stessa terra dov’è costruito il campo di Chatila non ci appartiene ma è
affittato dall’UNRWA e l’affitto scadrà tra una ventina d’anni”.
Mentre mi
risuonano in mente i versi finali di una poesia di Mahmoud Darwish, […]Tutti i
cuori degli uomini sono la mia nazione, ritiratemi pure questo passaporto; in
tutti i campi palestinesi le persone si preparano alle manifestazioni che
domani mattina, 15 maggio, avranno luogo nei vari campi per poi muoversi nel
pomeriggio verso il confine israeliano e ricordare così a loro stessi e
agli altri che dopo settant’anni dalla “catastrofe”, il popolo palestinese è
ancora pronto a lottare per il riconoscimento del proprio diritto a esistere.