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Il caso Lula spacca il Brasile

Emiliano
Guanella, ISPI online, 13 aprile 2018

Il
Brasile sta vivendo uno dei momenti più convulsi della sua recente vita
democratica.
L’arresto
dell’ex presidente Lula Da Silva ha riacceso le divisioni all’interno della
società e rappresenta una vera sfida per la maxi inchiesta Lavajato, che ha
scoperchiato i meccanismi illegali di finanziamento della politica. Paragonata
più volte all’Operazione Mani Pulite, l’inchiesta è nata quattro anni fa a
Curitiba, grazie alla scoperta di uno schema di corruzione legato all’impresa
petrolifera Petrobras, un colosso nel settore, che è allo stesso tempo la
principale società latino-americana quotata alla Borsa di New York. Si è
scoperto che un cartello composto dalle tredici maggiori imprese di costruzioni
brasiliane pagavano tangenti ai direttori lottizzati delle varie aree di
controllo della Petrobras e si aggiudicavano così importanti commesse
pubbliche. I direttori erano designati dai principali partiti che hanno
composto il governo di Lula da Silva (2002-2010) e di Dilma Rousseff
(2010-2015). Ognuno riceveva una “commissione” in base alla sua forza; il 3% di
sovrapprezzo sull’appalto per il Partito dei lavoratori di Lula (PT), il 2%
agli alleati del Partito del Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb) il 2% e 1%
a quelli del Partito Progressista (PP). Lo scandalo ha investito politici,
faccendieri e, per la prima volta nella storia del Brasile, gli imprenditori;
uno dopo l’altro sono finiti in carcere alcuni degli uomini più ricchi e
influenti del Brasile, tra cui Emílio Odebrecth, a capo dall’omonima società di
costruzione, un colosso con ramificazioni in tutto il continente, che
finanziava attraverso la cosiddetta “Caixa Dois” (seconda cassa) le campagne
elettorali dei principali candidati. Il giudice Sergio Moro, che ha raccolto il
lavoro dei procuratori, è diventato un simbolo della lotta alla corruzione.
Lula è entrato nell’inchiesta non per la via maestra, ma per un attico in riva
al mare che la ditta OAS gli avrebbe regalato quando non era più presidente in
cambio di un trattamento riservato in seno al governo della sua delfina Dilma
Rousseff.
Il
processo condotto da Moro è oggetto di un intenso dibattito tra giuristi di
fama internazionale. Il tutto è partito dalla delazione di Leo Pinheiro, ex
capo della OAS, che ha dichiarato di aver comprato un attico a Guarujá, sul
litorale di San Paolo, per regalarlo a Lula. L’ex presidente ha visitato con la
moglie Marisa l’appartamento e una copia di un contratto d’acquisto dello
stesso è stato trovato non firmato a casa sua. Lula ha sempre sostenuto di non
esser mai entrato in possesso dell’attico e di non aver mai ricevuto soldi o
proprietà da imprese interessate a fare affari con il governo. Moro lo ha
condannato a nove anni, la Corte d’appello di Porto Alegre ha aumentato la pena
a 12 anni e un mese di reclusione.
Al di là
della mancanza di una prova schiacciante (non c’è un contratto e Lula, in
effetti, non ha mai occupato l’appartamento) sorprende la velocità del caso,
passato dalla prima accusa alla condanna in secondo grado in poco più di nove
mesi, quando la media delle altre cause va da 18 a 30 mesi. Lula sostiene che
si è trattato di un processo politico, un golpe togato organizzato per
tagliarlo fuori dai giochi per le prossime elezioni presidenziali di ottobre,
nelle quali, secondo i sondaggi navigherebbe intorno al 35% delle intenzioni di
voto, ben oltre tutti gli altri pre-candidati. Il giorno del suo arresto il
Brasile si è spaccato in due, tra festeggiamenti e proteste. Mai come oggi Lula
divide le acque e intorno alla sua figura ruota gran parte del dibattito
politico.
Ma a
essere sotto osservazione è anche tutta l’inchiesta Lavajato, che finora si è
concentrata quasi esclusivamente sul PT e i suoi alleati, nonostante sia stato
appurato come la corruzione ed il finanziamento illegale delle campagne
elettorali fossero pratiche diffuse e sistemiche. Fa specie, ad esempio, che il
PSDB, principale partito d’opposizione ai governi di Lula e Dilma, conti con un
solo arrestato in quattro anni, l’operatore Paulo Preto accusato di essere il
“raccoglitore ufficiale” delle mazzette per il partito a San Paolo. Preto è
finito in manette il giorno dopo il mandato di arresto spiccato da Moro a Lula.
Va anche
detto che molti politici citati nell’inchiesta godono del “forum privilegiato”,
un’immunità penale estesa in Brasile a parlamentari, ministri, governatori e,
in alcuni casi, consiglieri regionali. Sul libro paga della Odebrecht c’erano
diversi parlamentari, ma per processarli ci vuole un’autorizzazione speciale
della Corte Suprema che deve poi essere ratificata dal Congresso.
Nessuno
dei 109 politici coinvolti nell’inchiesta è stato formalmente indagato. Lo
stesso presidente Michel Temer è accusato di aver ricevuto tangenti dalle
Odebrecht e da altre ditte. Uno dei direttori del colosso alimentare JBS ha
registrato una conversazione con Temer nella quale si parla chiaramente del
pagamento di tangenti per continuare a ricevere un trattamento di favore dal
governo. In un appartamento di un suo collaboratore sono stati trovati 14
milioni di euro in banconote. Il caso è arrivato alla votazione del Congresso,
che l’ha però respinto, salvando il presidente da un processo di impeachment.
L’ex leader dell’opposizione Aecio Neves è stato intercettato mentre si metteva
d’accordo sul pagamento di una tangente di 500.000 euro dalla JBS. “Mando mio
cugino a prendere i soldi – ha detto all’imprenditore Joesly Batista – se lui
parla non ho problemi a farlo fuori”. La richiesta d’incriminazione avanzata
dalla Procura generale della Repubblica contro di lui è stata bocciata dai suoi
colleghi senatori e Aecio è tutt’ora un uomo libero.
Come
questi, ci sono diversi altri casi. La sensazione diffusa è quella di una
giustizia a due velocità; celere e “intuitiva” nei confronti di Lula, che come
ex presidente non gode del forum privilegiato, lenta e con le mani legate per
altri.
Lula, a
questo punto, deve abbandonare il sogno di tornare alla presidenza. Dal carcere
può ancora presentare la sua candidatura, ma la legge della “Ficha Limpa”
(Scheda pulita) impedisce a chi è stato condannato in seconda istanza di essere
eleggibile. Il tribunale elettorale dovrà entro metà agosto cassare la sua
postulazione. Senza di lui i giochi si riaprono, anche perché è chiaro che il
suo bacino elettorale non è trasferibile tout court ad un altro candidato di
partito. Al contrario, senza Lula il PT è orfano, con una sinistra frammentata
in almeno quattro virtuali candidati che non farebbero altro che portarsi via i
voti a vicenda.
A destra
brilla invece la stella in ascesa di Jair Bolsonaro un ex militare
profondamente conservatore che rasenta oggi il 20% delle intenzioni di voto. I
moderati del PSDB puntano sul governatore uscente di San Paolo Geraldo Alckmin,
citato più volte dai delatori della Odebrecht ma rimasto finora miracolosamente
indenne dalla Lavajato. Tre giorni dopo l’arresto di Lula la sua posizione è
stata stralciata dall’inchiesta e sottoposta al Tribunale elettorale che deve
giudicare i casi di finanziamento illecito delle campagne. Una decisione
inedita che potrebbe salvarlo in futuro, avallando di fatto la tesi della
giustizia monotematica che colpisce quasi esclusivamente il Pt e i suoi
alleati.
Al di là
del controverso processo sull’appartamento di Guarujá viene comunque oggi
messa in discussione l’eredità politica di Lula e degli anni di governo della
sinistra brasiliana. Un periodo segnato da una forte politica di
redistribuzione della ricchezza con politiche sociali ancora oggi ammirate
globalmente, che hanno salvato milioni di brasiliani dalla povertà. Allo stesso
tempo, però, non è stato fatto nulla per mitigare gli effetti distorsivi del
sistema finanziario brasiliano, un Paese che ha i mutui e tassi di interesse
più alti al mondo (fino al 400% all’anno per chi si indebita con una carta di
credito). Passato il periodo di crescita sostenuta dell’economia, grazie soprattutto
alle esportazioni agricole, dal 2014 il Brasile è entrato in crisi e il sistema
economico del lulismo ha iniziato a mostrare le sue pieghe congenite.
L’assistenzialismo ha creato una massa di consumatori ma oggi molti di quegli
ex poveri sono indebitati e il ciclo produttivo si è fermato. Oltre sessanta
milioni di brasiliani sono iscritti nel registro Serasa dei debitori morosi.
Il PT,
poi, ha fallito nella sua sfida di cambiare le regole della politica brasiliana.
Se dall’opposizione prometteva una nuova moralità e la lotta senza freno alla
corruzione, una volta arrivati al governo è subentrata la logica delle alleanze
parlamentari necessarie per sopravvivere e sono stati adottati gli stessi
metodi clientelari e consociativi vigenti da sempre. La Petrobras è stata la
“casa madre”, delle triangolazioni sottobanco tra governo, compagnie pubbliche
e imprese private, che si sono poi diffuse su scala minore. Sono finiti in
carcere per corruzione il tesoriere e quasi tutti i principali dirigenti del partito.
Per metà dei brasiliani Lula “non poteva non sapere” e non importa se il
processo a suo carico è stato, quanto meno, forzato nei tempi e modi per
arrivare ad una condanna veloce che lo escludesse dalla prossima corsa
presidenziale.
I
prossimi mesi sono pieni di incognite. Dal punto di vista politico si dovrà
capire se c’è spazio per la nascita di un leader nuovo di centro e di una
candidatura unitaria delle sinistre per fronteggiare il fenomeno Bolsonaro, da
molti paragonato alla figura di Trump nelle ultime elezioni statunitense. Dal
punto di vista giudiziario si dovrà capire se la Lavajato avrà la forza per
continuare, occupandosi davvero di tutti i partiti coinvolti nel meccanismo
della corruzione o se, dopo l’arresto eccellente di Lula, si fermerà. Se le
inchieste si bloccheranno sarà legittimo pensare che si sia trattato, in
realtà, di una gigantesca operazione politica per rovesciare, tribunali
mediante, la sinistra al potere nell’ottava economia del Pianeta.