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Colonialismo e cinema arabo

Di
Cecilia D’Abrosca, Nena News, 09 apr 2018

Nel
secolo scorso i dominatori europei hanno esercitato uno stretto controllo sulla
produzione di cultura attraverso la nuova arte. L’Egitto oppone resistenza e
produce, la Palestina diventa il set preferito

Il cinema
palestinese Al Hambra, a Jaffa, aperto agli inizi del 1900
Roma – Alcuni paesi arabi non realizzano film prima
dell’indipendenza dagli Stati coloniali. La presenza di autorità francesi e
inglesi, nel Maghreb e in alcune aree del Medio Oriente, rallenta la nascita di
un’industria cinematografica araba.

Gli Stati
coloniali incidono sull’assetto politico ed economico dei popoli sottoposti –
attraverso una rigorosa giurisdizione estesa al settore della cultura che
determina la dipendenza dei linguaggi artistico- espressivi (compreso il
cinema) – a regole formali, stili espositivi e a contenuti definiti.
I paesi
che vivono limitazioni espressive sono la Tunisia, Algeria, Marocco, Siria,
Giordania, Palestina e Libano, mentre l’Egitto è l’unico a porre in essere
un’audace resistenza culturale. Al contrario, la produzione in Sudan, Libia,
Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti resta confinata a short movies e alla
televisione.
Citando,
in nome dell’autenticità delle fonti, il volume “Arab Cinema: History and
Cultural Identity” di Viola Shakif, i dati numerici in esso contenuti –
riconducibili all’attività dei singoli paesi – sono: 700 film in Marocco, 180
in Libano, 150 in Siria, 130 in Tunisia, 100 in Algeria e Iraq, 2.500 in Egitto
(film per il cinema e non per la televisione).
Passaggi
storici. Gli accordi “Sykes-Picot” [1916], firmati da Francia e Inghilterra,
segnano la spartizione tra lor, di aree del Medio Oriente e del Maghreb e
l’istituzione di protettorati francesi e inglesi, legati a filo diretto ai due
stati europei. Il controllo, posto in essere  nei confronti della cultura
indigena – soggetta a restrizioni e vincoli giuridici – fa sì che ogni
“slancio” autoctono, relativo alla manifestazione di espressioni culturali, non
lasciasse un’impronta sulla nascente “industria” nazionale del cinema. In tale
prospettiva, il processo di acculturazione dei nativi è esposto ad un’offerta
educativa unilaterale, a spese della cultura indigena.
Il cinema
“europeo” incontra la società araba nel 1896, pochi mesi dopo la proiezione
dell’opera dei fratelli Louis e Auguste Lumière a Parigi. Il loro lavoro viene
presentato in Egitto, ad Alessandra e al Cairo, poi in Algeria, Tunisia e
Marocco, e nel 1900 a Gerusalemme, all’ “Europa Hotel”. Fiorisce, a partire da
ora, la stagione dei cinematografi (con l’eccezione dell’Arabia Saudita e dello
Yemen del Nord, dove, per motivi religiosi, fino agli anni 1960-1970 i cinema
non sono accettati).
Perché
l’Egitto si distingue, dagli altri contesti, in merito all’esercizio della
libertà artistica? La ragione risiede nella dinamicità di una vita
multiculturale, all’interno della quale gli egiziani ricoprono una posizione
significativa al punto da agire indisturbati dalle autorità coloniali. 
Una situazione opposta caratterizza la Siria: qui la debolezza economica
scoraggia la categoria degli imprenditori, i quali esitano a investire nel
cinema. La vita artistica appare schiacciata e, numerosi intellettuali siriani
e interpreti cinematografici emigrano in Egitto per poter lavorare.
I primi
cineteatri sono di proprietà di investitori europei, ossia di una minoranza
composta da immigrati; la Palestina è tra i luoghi che, più di altri, attira cameramen
stranieri entro il suo circuito “sperimentale”, attivando il dialogo tra autori
e teorici del cinema.