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Perché i migranti vengono in Italia? Storia del giovane Ismail

Di
Filippo Brianni , Osservatorio Diritti, 27 febbraio 2018

Si parla
spesso di immigrazione, migranti, profughi, chiedendosi perché scappino dai
loro paesi verso l’Italia, senza però interpellarli direttamente. Osservatorio
Diritti ha deciso di farlo. Dedicando un intero articolo al racconto di un
giovane maliano.
 

Foto: Federica Mameli/SOS Méditerranée/Luz

Porta
casualmente il cognome di un calciatore famoso ed è stato salvato proprio da
una partita di calcio. «Sì, vero, senza quella partita, probabilmente sarei
morto in carcere a Sebha. E pensare che il calcio nemmeno mi appassiona così
tanto». Il diciassette Ismail (trattandosi di minore, il nome non è il suo, ma
la storia sì) parla felpato, come il suo passo nel raggiungere il salottino del
centro rogazionisti di Cristo Re di Messina, un balcone sullo Stretto che
sembra fatto apposta per tenere lontane le cose brutte. Ismail abbassa lo
sguardo e alza un dito in mezzo alla cresta, quasi a voler riavvitare i
riccioli scuri. E riavvitare i ricordi di quei momenti cruciali. Scuri, pure
quelli.
 
Libia,
nel carcere dove «picchiavano e uccidevano»
«Eravamo in
1.200 nel carcere, in mezzo alla Libia, a Sebha. Picchiavano e uccidevano ogni
giorno. A dicembre 2015 già ne avevo visti morire sei o sette. Per fortuna
ancora a me non mi avevano toccato. Avevo quindici anni. Per uscire da lì
avremmo dovuto negoziare un riscatto e farci arrivare i soldi dalla famiglia».
Ma Ismail
non aveva più soldi. Li aveva finiti nella traversata nel deserto. E nemmeno la
mamma in Mali. Non gli restava che evadere, perché presto la violenza l’avrebbe
raggiunto.
Una
partita di calcio per scappare dall’inferno
«Uno dei
carcerieri, mentre ero in disparte, mi chiese se sapevo giocare a pallone. Mi
disse che mi avrebbe portato con lui a partecipare a una gara e poi riportato
in prigione. Capii che era l’unica occasione per uscire da lì. Lo capì anche
lui, però, perché mi disse che se lo stavo prendendo in giro, se non avessi
saputo giocare bene, mi avrebbe sparato alle gambe».
Il
“calciatore” Ismail salì a bordo e finalmente lasciò il carcere per un campo.
La partita era dura, ma lui si diede da fare. Poi la “partita”, la sua, prese
una piega decisiva, come se alla sua vita fosse stato assegnato un improvviso
rigore.
«Ci fu
una pausa e loro si allontanarono a fumare. Non erano distanti, però non
avevano armi, quindi, scappando subito e correndo veloce forse avrei potuto
farcela».
Ismail
scappò. Più veloce che poteva. In mezzo a una città sconosciuta. Senza meta,
solo cercando di mettere distanza tra lui e il campo. Il timore di sentire da
un momento all’altro il peso della pallottole addosso lo rendeva ancora più
veloce. Ma per fortuna addosso arrivò solo l’eco del vento del Sahara.
L’infanzia
in Mali, la guerra e la fuga verso il Niger
Ismail
stavolta gira la testa, dal lato opposto, indietro. Ed anche il suo racconto
torna indietro. A prima che le porte dell’inferno gli si spalancassero davanti.
Per capire anche lui, raccontandolo, come fosse stato possibile finirci dentro.
Il
racconto va all’infanzia a Bamako, capitale del Mali, dove viveva con la madre
separata, un’insegnante di francese. Sulla loro serena quotidianità piombò la
guerra. Gli attentati che si fecero frequenti, poi quotidiani. Il governo
chiuse le scuole. La mamma restò senza lavoro. La situazione si fece in poco
tempo disperata. Era l’anticamera dell’inferno, quella. Ma lui non lo sapeva
ancora.
«Pensavo
sarebbe bastato andarsene un po’ a cercar lavoro fuori, magari in Libia. Per
questo comprai quel biglietto per Niamey, capitale del Niger, a 1300 chilometri
da casa».
Giunto
ragazzino in Niger, Ismail, crebbe di colpo. Imparò come si dorme in stazione e
come si evitano i pestaggi quotidiani. Ragazzi, bambini, uomini, in quella
confusione non facevano più alcuna differenza. Erano tutti bersagli e tutto ciò
che girava attorno poteva essere una minaccia. «Trovai però una signora che mi
aiutò. Mi fece lavorare e mi pagai il posto su un fuoristrada per la Libia».
Migranti:
la grande traversata del Sahara
«Eravamo in
25 su una Toyota, per due settimane nel deserto. Mangiavano a giorni alterni
senza condividere l’acqua perché ci era permesso portarne solo un bidoncino per
non appesantire la macchina».
Era
l’inferno che si materializzava. «Sai, alcuni sono morti di sete. Potevamo
aiutarli pensi? Il primo a morire però fu perché cadde dall’auto. Esortammo
l’autista a fermarsi, ma quello non ci volle sentire. Io, veramente, da terra
non lo vidi più muoversi, credo fosse morto appena caduto. Lo spero. Non posso
pensare che fosse ancora vivo e sia rimasto in mezzo al deserto. Ma glielo
abbiamo detto all’autista di fermarsi, davvero, non è colpa nostra».

Foto: Iom
Tripoli
Il
racconto si fa secco, come quella sabbia del Sahara. Duro, come gli eventi.
«Alcuni di loro, morti dopo, sono stati seppelliti, però: si facevano delle
buche con le mani e si mettevano dentro la sabbia. Poi a Dirkou, in Niger, ci
siamo fermati per cercar cibo e chi non è tornato in tempo è rimasto lì. Eravamo
partiti in 25 siamo arrivati a Sebha in 18. Speravamo nella libertà e abbiamo
trovato un carcere. Senza aver fatto nulla di male».
Dopo tre
mesi di detenzione, Ismail, grazie a quella partita, si salvò. Al termine della
corsa per le strade di Sebha trovò un ragazzo che lo prese a lavorare. Accumulò
600 dinari e ad aprile raggiunse Tripoli. Lì dove l’Italia sembra vicina.
Il lavoro
a Tripoli per pagare il viaggio verso l’Italia
Ma
Ismail, 16enne, si ritrovò ancora una volta solo, senza meta, nel cuore di una
città pericolosa e ostile. «Si avvicinò uno con la lunga barba e mi disse che se
volevo andare in Italia mi ci mandava ad agosto, ma prima avrei dovuto lavorare
per lui. Acconsentì. Però dalla paga si tratteneva pure vitto e alloggio e
così, invece di agosto, dovetti lavorare fino a dicembre».
«Quando
mi lamentavo, mi minacciava con la pistola. Il 25 dicembre mi disse che due
giorni dopo ci sarebbe stato un viaggio in barca per l’Italia. Si tenne i soldi
del mio lavoro e io andai in spiaggia».
Erano in
123 per quel viaggio. Avevano assicurato loro che sarebbero partiti a minuti,
ma non c’erano barche, solo la spiaggia. Vuota. E il mare. Immenso.
123
profughi stipati a forza su un gommone
«Su una
macchina portarono un gommone che iniziarono a gonfiare lì davanti a nostri
occhi allibiti. Ebbi paura. Dissi che non sarei mai salito su quel piccolo
gommone e che eravamo tanti, che ci volevano più barche e più grandi per
portarci tutti. Uno di loro iniziò a schiaffeggiarmi. Mi puntò il fucile
contro: “O sali, o ti sparo!”. “se è così, salgo!”.  Qualcuno di noi
iniziò a guidare il barcone in qualche modo».
Il
Mediterraneo, il rischio di morire, lo sbarco in Sicilia
Sparirono
così nel Mediterraneo. Senza vedere altro che acqua e cielo. E dopo 12 ore
anche un delfino. Nessuno di loro aveva mai visto un delfino. «Era grandissimo,
pensammo tutti fosse pericoloso, perciò molti iniziarono a muoversi in modo
scomposto e finimmo per bucare il gommone. Cominciò a entrare acqua, toglievamo
i vestiti per tentare di strizzarla via. A quel punto ero certo che saremmo
morti».
 
Foto: ©
IOM/Francesco Malavolta 2014
Ma la
conclusione, fortunatamente, non fu quella. «Notai i droni sulla nostra testa e
poi la nave italiana. Fu il momento più bello della mia vita».
L’arrivo
in Italia: da Catania a Messina
L’inferno
liquefatto nel Mediterraneo, Ismail se lo lasciò dietro. E, in parte, dentro. Sbarcò
a Catania il 29 dicembre 2016. Chiese subito un dizionario italiano-francese,
voleva imparare la lingua e Rita, un’educatrice, glielo regalò.
Poi il trasferimento
a Messina dai rogazionisti di Padre Ande, dove i ragazzi imparano a cavarsela
da soli in un ambiente sereno, studiando e lavorando con gli imprenditori
coinvolti dalla vivace struttura. «Iniziai a trascrivere in italiano ogni cosa
che pensavo in francese e andai subito a scuola».
Appoggia
le mani sul tavolo, Ismail, sono più rilassate. Lo sguardo si fa sereno.
L’inferno è un ricordo, un brutto ricordo, ormai sgonfio come un pallone da
calcio. Abbozza un sorriso. È orgoglio: «A giugno ho superato gli esami di
terza media col voto più alto. Non male per uno che fino a sei mesi prima non
aveva mai parlato italiano, non credi? E faccio pure teatro. Siamo stati pure a
Roma a recitare un lavoro scritto da uno che qui dicono sia famoso, Pasolini».
Un altro che di inferni se ne intendeva.
Ismail,
come tanti immigrati, non tornerà in Africa
Ora
Ismail frequenta l’istituto tecnico per il turismo. Parla francese, inglese,
italiano, arabo e mandinga («pure il messinese sto imparando, con la mia
ragazza, già lo parlo meglio dell’inglese») e… sa giocare a pallone. Sorride.
L’inferno non c’è più. Lo ha lasciato tra le sabbiose dune del deserto. «Non ci
voglio più tornare a vivere in Africa, solo a trovare mia mamma».
Malgrado
l’età, ha le sue idee pure sulla sua terra: «In Africa non ci si dovrebbe
dividere. Se non siamo uniti continueranno a calpestarci, farci fare le guerra
e scappare». E non sempre c’è un pallone da calcio a salvarli.
Ismail
smette di parlare e nel silenzio si infilano voci di ragazzini che nei campetti
di Cristo Re giocano spensierati. Arriva un grido di esultanza. Qualcuno ha
fatto gol. Ismail ci saluta e col suo passo felpato sparisce oltre il
corridoio.