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Terrorismo in Italia: una minaccia concreta?

25 Agosto 2017

Con Francesco Marone (ISPI) e Marco Lombardi (ITSTIME) parliamo del jihadismo in Italia

Negli ultimi giorni, messaggi di propaganda jihadista, rilanciati da ‘Site‘, hanno riportato l’attenzione sulla minaccia terroristica all’Italia.
Il nostro, infatti, è l’unico Paese europeo di un certo rilievo a non aver ancora subito attacchi terroristi: si pensava che questo potesse dipendere dal fatto che l’Italia non era direttamente impegnata nella lotta all’autoproclamato califfato islamico e che le minacce, che già erano arrivate a diverse riprese, non rappresentassero altro che propaganda. I fatti di Barcellona (la Spagna, come l’Italia, non è direttamente impegnata nella lotta contro gli islamisti in Siria ed Iraq) hanno fatto cadere questa illusione.

Per tentare di fare il punto sul reale rischio di attacchi dei terroristi islamisti in Italia, abbiamo parlato con due esperti: Francesco Marone, dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e Marco Lombardi dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME).

In primo luogo, bisogna tentare di capire se le nuove minacce terroristiche rivolte dai siti di propaganda del terrorismo islamista siano attendibili: il fatto che questi ultimi messaggi fossero in lingua italiana è stato interpretato, da alcuni, come un ulteriore campanello d’allarme.
In realtà, come ci dice Francesco Maroni, “l’attendibilità di questi diversi messaggi è ancora oggetto di analisi. Non sono comunque le prime minacce rivolte al nostro Paese negli ultimi mesi e nemmeno le prime in lingua italiana. In breve, l’attenzione sotto questo profilo è molto elevata, ma non da oggi”.
Lombardi va oltre, e ritiene che le ultime minacce siano molto sospette poiché, se è vero che “la minaccia è in aumento e non si può dar per scontato che l’Italia sia al riparo da queste minacce”, la natura e la fonte delle ultime minacce solleva qualche dubbio: “sono due giorni che i media rilanciano da ‘Site’ una serie di messaggi, l’ultimo è quello rilanciato ieri da ANSA in cui c’è questo canale Telegram che ha lanciato questo banner ‘uccideteli tutti‘, con questo uomo di spalle col coltello”. Il fatto è che “non si tratta di un’immagine nuova. Sia quel canale Telegram, sia quell’immagine, rimandano ad un video che ha appunto quel titolo (ma in inglese) che è stato pubblicato nel novembre 2016. Quel canale Telegram, che da tempo conosciamo bene, si occupa proprio di tradurre e sottotitolare in italiano la propaganda video di Daesh. Quindi è un incitamento di mesi fa, fatto da un canale che abitualmente fa quelle cose. Il giorno prima c’era stata un’altra immagine, rilanciata sempre da ‘Site’, con un immagine che ritraeva il grattacielo che ha sostituito le Torri Gemelle e un richiamo alla jihad, e veniva indicata come una minaccia di muovi attacchi alle città europee: l’immagine di cui si parlava era del 2014 (rilanciata da Daesh per il tredicesimo anniversario dell’11 settembre)”. Il fatto che si tratti di vecchio materiale, per giunta non di fattura particolarmente pregevole, quindi, solleva dubbi sull’autenticità del messaggio stesso, tanto più che, dopo gli attentati di Barcellona, “Daesh ha immediatamente prodotto una serie di banner nuovi, molto ben fatti, che inneggiavano a quei fatti; poco dopo c’è stata la rivendicazione di Barcellona e lo stesso è accaduto dopo Turku, in Finlandia. Quindi Daesh, in questa ultima settimana, è sembrata essere molto attiva sui canali della comunicazione, anche in maniera propositiva e innovativa richiamando tutti i jihadisti al jihad globale. In questo contesto così propenso alla comunicazione, perché Daesh avrebbe dovuto rilanciare con immagini vecchie dei messaggi nuovi?”. In seconda battuta, bisogna tener conto che “’Site‘, che in genere è così attento, non è un centro di ricerca no-profit: ‘Site’ ha deciso anni fa, dopo essere nato come centro di ricerca, di scandagliare il web e di vendere ai media quello che trova, per cui, se vuoi qualcosa da ‘Site’, lo paghi”. Lombardi continua dicendo che “il terrorismo, per ‘Site‘, è un’operazione di business. Per lavoro scandagliano il web e sono bravi: dunque, perché pubblicare roba vecchia? Oppure, se sono delle immagini vecchie contestualizzate in una nuova situazione, perché non dirlo chiaramente?”. Inoltre bisogna considerare che ‘Site‘, “come tante cose negli Stati Uniti, non è particolarmente indipendente: i legami di ‘Site’ sono con le Agenzie di Intelligence americane ed israeliane. Siccome non sono degli sprovveduti, siccome di materiale ne hanno tanto, siccome non sono oggettivi (un conto è quando forniscono dati senza commentare, un conto è quando forniscono le loro analisi che non sono quelle di un commentatore oggettivo ma sono sempre state orientate a certe visioni), verrebbe da chiedersi a chi, in questo momento, interessa che l’Italia abbia paura del terrorismo? Non sarebbe possibile che la potenza che coordina ‘Site‘, ovvero gli USA, in questo modo vogliano spingere gli italiani ad essere più ‘fedeli’ alla linea sulla Libia o ad assumere un ruolo più concreto sulla ‘seconda fase afghana‘ appena lanciata? Teniamo presente che la comunicazione, nell’ambito della ‘guerra ibrida’, non è utilizzata bene solo da Daesh, ma anche da tutta la coalizione che combatte contro Daesh”.

Un’altra domanda sollevata dalle recenti minacce è questa: si tratta di messaggi specifici rivolti a cellule dormienti che si annidano nel territorio, attendendo un ordine per colpire, o la propaganda mira a mobilitare individui radicalizzati o in via di radicalizzazione nella speranza che colpiscano in maniera imprevedibile seminando il panico? Secondo Francesco Marone, “è ragionevole ipotizzare che possano essere messaggi finalizzati a incoraggiare individui già radicalizzati a passare all’azione, sulla scorta di quanto avvenuto in Spagna”. Proprio in virtù del fatto che, “fino ai recenti attacchi in Catalogna, Spagna e Italia erano gli unici grandi paesi europei a non aver sofferto attacchi terroristici di matrice jihadista dall’ascesa dell’auto-proclamato califfato nel 2014”, c’è il rischio che simpatizzanti islamisti possano decidere che il momento sia giunto.
Un altro fattore di rischio è rappresentato dalla presenza, a Roma, dello Stato della Città del Vaticano. Secondo Marone, “il Vaticano rappresenta certamente un obiettivo di grande valore simbolico. Nella retorica dei gruppi jihadisti”. In effetti, “i riferimenti alla ‘conquista di Roma’ sono frequenti, per quanto solitamente generici”. È interessante notare come la propaganda di Daesh utilizzi, in maniera alquanto distorta, elementi prelevati dalla letteratura islamica: “l’espressione ‘Roma’ compare in diversi passi della letteratura classica islamica ripresi selettivamente dallo stato islamico, sebbene nell’originale facciano in realtà riferimento all’Impero Bizantino (l’Impero Romano d’Oriente, appunto): un interessante caso di uso decontestualizzato della tradizione”.

La grande risonanza mediatica, con conseguente creazione di uno stato di tensione perenne e di diffidenza per il diverso tra la popolazione, in un certo senso, rappresenta già una vittoria per i terroristi. Si tratta di una sorta di circolo vizioso per cui intervenire è necessario ma, facendolo, si favorisce la strategia degli islamisti. Di certo, per Maroni, si tratta di “una sfida difficile. Da un lato, è importante saper reagire in maniera risoluta e tempestiva. Dall’altra, occorre evitare eccessi; il rischio, a tutto vantaggio dei gruppi terroristici, è quello di provocare nella popolazione un continuo stato di allarme e paura (gli incidenti in Piazza San Carlo a Torino, del 3 giugno sono piuttosto eloquenti a questo riguardo), ma anche di diffidenza o addirittura di ostilità contro alcuni gruppi o categorie (è ovvio il riferimento ai pericoli di crescente islamofobia). Ancor più, il rischio è quello di sovvertire le regole e le pratiche delle società democratiche liberali”.
Più o meno sulla stessa linea, Marco Lombardi ci dice che il punto fondamentale è “informare senza allarmare. Quello che quei comunicati stanno facendo, non è informare, è allarmare. Informare è una cosa diversa e la popolazione è disponibile ad essere informata: sono le nostre istituzioni che hanno paura di parlare del terrorismo alla gente, non hanno capito che oggi queste cose, ai cittadini, si possono raccontare; la paura è figlia dell’incertezza e l’incertezza si sconfigge con l’informazione. Quindi, informare senza allarmare è possibile, soprattutto se entrano in gioco le istituzioni che devono rompere questa loro percezione secondo cui il cittadino è un pupo al quale è meglio non dire niente: oggi non è più così, anche perché la comunicazione di Daesh è sotto gli occhi di tutti, perché è fatta di automobili che schiacciano la gente”.

Caduta l’ipotesi che imputava al non impegno italiano in Siria ed Iraq la mancanza di atti terroristici in Italia, ci si chiede come mai, tra tanti Paesi dell’Unione Europea, solo il nostro sia stato risparmiato. Secondo alcuni, il merito sarebbe dei nostri validi Servizi Segreti, altri puntano l’accento sul numero relativamente basso di immigrati di religione islamica, altri ancora sostengono che il Paese venga visto, dai terroristi, come una zona di passaggio e, quindi, questi non ritengano opportuno compiere atti che alzerebbero ulteriormente l’attenzione sulle loro attività. In quest’ottica, le nuove minacce all’Italia potrebbero essere sintomo di un momento di difficoltà del sedicente stato islamico.
Secondo Marone, il fatto che “al momento siamo l’unico grande stato europeo e occidentale a non aver sofferto attacchi terroristici di matrice jihadista sul proprio suolo dopo l’11 settembre (con la parziale eccezione dell’attentato di Mohamed Game a una caserma di Milano nel 2009)” si spiega con molteplici fattori: “le ragioni di questa fortunata anomalia sono probabilmente molteplici, dal numero limitato di seconde e terze generazioni di immigrati (più vulnerabili alla radicalizzazione rispetto alla prima generazione) all’efficacia degli apparati di sicurezza. D’altra parte, non credo vi sia un legame stretto tra minacce all’Italia, comunque già arrivate anche in passato, e le presenti difficoltà dello stato islamico in Medio Oriente”. D’altro canto, “gruppi islamisti sono presenti in Italia sin dagli anni ’90. Oggi, nel complesso, la scena jihadista appare meno ampia, radicata e strutturata di quella di molti altri paesi europei. A titolo di esempio, si può ricordare che i foreign fighters jihadisti legati al nostro Paese sono non meno di 125, di cui solo una minoranza è formata da cittadini italiani; si tratta di un numero relativamente ridotto, rispetto a quello di altri paesi europei, come la Francia (1700 individui), il Regno Unito e la Germania (circa mille in entrambi i paesi), ma anche rispetto a paesi meno popolosi, come il Belgio (470), l’Austria (300), la Svezia (300) e i Paesi Bassi (250)”.

Il lavoro dei Servizi Segreti italiani, fino a questo punto, ha garantito sicurezza al Paese: “Certamente”, sostiene Marone, “gli apparati di sicurezza italiani beneficiano dell’esperienza maturata nel contrasto al terrorismo durante gli ‘anni di piombo’, così come nella lunga lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Nondimeno le differenze tra i gruppi armati domestici dell’epoca, come le Brigate Rosse – che presentavano una struttura organizzativa rigidamente gerarchica e una forte disciplina interna e selezionavano con attenzione i propri obiettivi, evitando l’uso indiscriminato della violenza –, da un lato, e l’attuale galassia transnazionale di matrice jihadista sono notevoli. In effetti, si può dire che l’antiterrorismo sia un campo in cui occorre sapersi reinventare continuamente per reagire alla sfida lanciata di volta in volta dall’avversario”.
Al livello europeo, però, i fatti di Barcellona hanno messo in evidenza le falle della collaborazione tra organi di polizia di diversi Paesi: per questo si tornato a parlare di una Difesa Europea unita, non solo dal punto di vista prettamente militare, ma anche da quello dei Servizi Segreti pensando, addirittura, alla creazione di una Procura Europea.
Allo stato attuale, secondo Marco Lombardi, la cosa sembra impossibile: “purtroppo, l’acquisizione della cittadinanza e la sicurezza, che sono due temi critici nella lotta al terrorismo, sono considerati temi di prerogativa esclusivamente nazionale: nessun Paese vuole aprire una trattativa con gli altri su questi due temi. Questi due temi diventeranno europei nel momento in cui l’Europa avrà un Governo europeo; attualmente c’è solo un mercato europeo”. Per ora, quindi, le varie Forze di Polizia degli Stati UE lavorano su quello che Lombardi definisce “information excahange: io ti dico una cosa perché tu me ne dici un’altra in cambio: questo, di solito, è quello che funziona, che costituisce il network a livello medio e che, finora, ci ha salvati; però è chiaro che si tratta di un salvataggio di sponda perché, fino a che non riusciamo a mettere su un sistema più complessivo, abbiamo un’enorme vulnerabilità che il terrorismo sfrutta”.
Anche Francesco Maroni è sostanzialmente d’accordo e dichiara: “credo che l’unificazione dei Servizi Segreti europei sia un obiettivo sostanzialmente irrealistico, almeno nei prossimi anni. L’intelligence rappresenta una fondamentale prerogativa nazionale; ancora per molto tempo, a torto o a ragione, gli Stati europei si avvarranno di singoli scambi di informazioni, specialmente a livello bilaterale, pur dovendo affrontare un nemico comune sul piano della sicurezza (chiaramente, nel caso dell’intelligence economica, l’unificazione sarebbe ancora più problematica). Passi in avanti potranno forse essere fatti su altri campi, come quello giudiziario”.

Se si vuole tentare di affrontare il fenomeno terrorista alla radice, però, bisogna andare oltre la propaganda dello scontro di civiltà che, a dire il vero, anche in Europa comincia a prendere piede in maniera inquietante e che, ad un’attenta analisi, potrebbe fare il gioco dei terroristi, oltre che dei populisti. Al di là della retorica ‘anti-occidentale’, ‘anti-semita’ e ‘anti-crociata’, quindi, la vera domanda è questa: quali sono le vere ragioni, quelle economiche, dei promotori del terrorismo islamico? Chi è che trae guadagno dal terrorismo islamista e, soprattutto, quale è il guadagno?
Secondo Marco Lombardi, “questa è una domanda importantissima che esonera un po’ dal mio compito. Io credo che si debba inquadrare in quello che noi chiamiamo la guerra ibrida. In questo momento è in corso una Terza Guerra Mondiale che, come tutte le guerre mondiali, è orientata a ridefinire i sistemi di potere a livello globale. Siamo in un contesto, che è quello del web 3.0, in cui le guerre mondiali non si combattono più come si combattevano una volta: sono entrati in gioco attori diversi e, evidentemente, il terrorismo è uno di questi. Il contesto della Terza Guerra Mondiale è più sfumato, rispetto al passato, per quanto riguarda le appartenenze, le scelte di campo… è più fluttuante, da società liquida. Allora chi ci guadagna? Ci guadagna chi, vincendo, stabilisce la propria supremazia sul nuovo assetto globale. Se vediamo, nello specifico, il tema del finanziamento al terrorismo, è abbastanza risaputo e sono wahabiti, qatarini e turchi. I Paesi del Golfo Persico sono quelli che sfruttano meglio il gioco del terrorismo islamista. I terroristi giocano su quella pancia grande dell’islam che è ferma al medioevo con questa narrativa con la quale movimentano persone disposte a morire e, così facendo, perseguono i loro interessi: non so cosa guadagneranno ma, normalmente, chi vince si siede al tavolo in cui si spartiscono le cose”.