General

Bangladesh e Vietnam a breve più forti di Cina e India?

25 Agosto 2017

Intervista a Salvatore Parisi, ex Vice Presidente Camera di Commercio di Phuket: Il mercato dei Paesi emergenti in Asia riserva e riserverà parecchie sorprese

I piani di investimento e gli studi che via via vengono condotti da banche e società interessate ad investire nel Mondo, sono criteri di valutazione cui fanno riferimento entità improntate alla differenziazione del proprio portafoglio-investimenti ma anche alla caccia perenne di nuovi scenari geografici dove investire. Le aree dei Paesi BRICS e ASEAN finora hanno mostrato segni di concretizzazione e stabilizzazione sotto i vari indici economico-finanziari già da tempo. Ora, però, si affacciano nuovi competitor ‘emergenti’ in Africa e in Asia, e per i meno avvezzi a tutto questo può sembrare sorprendente che il Vietnam sia già parecchio avanti in quanto ad essere Paese ‘emerso’ e quanto sia sempre più avanti nel suo sviluppo un Paese come il Bangladesh che spesso è ancora fissato nella mente dei più come una Nazione povera e reietta.

Su questi temi sottoponiamo delle domande a Salvatore Parisi, operatore finanziario esperto in particolar modo nell’area thailandese e Sud Est asiatica, già Vice Presidente della Camera di Commercio di Phuket (Thailandia) ed oggi operatore del settore immobiliare, da un quarto di secolo, oltre che consulente finanziario. Lavora per Italnova Company Ltd (Bangkok, Thailandia) e -già membro nazionale ANAMA  l’Associazione Nazionale degli Agenti e Mediatori d’Affari aderente alla CONFESERCENTI- oggi è Presidente di IRA – THAI, sezione thailandese di IRA Italian Russian Association. Una figura professionale, quindi, particolarmente attenta e sensibile alle mutazioni degli scenari per investimenti e che conosce quanta parte d’evoluzione c’è stata nell’evoluzione dei mercati di settore.


Secondo stime e progettualità del Fondo Monetario Internazionale, alcune Nazioni oggi considerate ‘emergenti’, quali Costa d’Avorio, il Bangladesh, il Kenya e il Vietnam sono in corsa per il loro notevole tasso di sviluppo superando la Cina e l’India. Il che ha creato molta perplessità nell’opinione pubblica. Qual è il suo punto di vista a riguardo?

I mercati emergenti non sono più un’unica asset class indistinta: nel 2017 sono avvantaggiati i paesi dai solidi fondamentali come Indonesia, Vietnam, Russia, Brasile e Colombia. Negli ultimi 5 anni l’investitore che ha sovrappesato il debito emergente ne ha ricavato un beneficio non indifferente.  Basti pensare che mentre l’indice generale dei fondi obbligazionari ha registrato una performance quinquennale del +16% (pari al +3,01% annuo composto) quella relativa ai fondi obbligazionari paesi emergenti si è attestata a +24,05% (pari al +4,4% su base annua). Una scelta, però, che avrebbe comportato un maggior rischio in quanto le oscillazioni dei fondi obbligazionari sul debito emergente (pari al 5,37%) sono risultate superiori a quelle di un comune fondo obbligazionario (2,32%).


Nello specifico, circostanziando al quadrante asiatico e Sud Est asiatico, il Bangladesh ed il Vietnam sono già parte essenziale del ‘motore’ produttivo ed economico mondiale. Il Bangladesh è oggi la fabbrica principale nel settore dell’abbigliamento e dei tessuti, il Vietnam ormai primeggia nell’esportazione del riso e dei prodotti derivati rivaleggiando ampiamente con la Thailandia, tanto per fare due esempi.

Ovviamente il basso costo della manodopera locale (rispetto ai prezzi rintracciabili a livello globale) sono parte dei vantaggi offerti da queste economie.


Ritiene che questo tipo di sviluppo sia duraturo (visto che il FMI ritiene che entro il 2021 possano competere nientemeno che con India e Cina) oppure vi siano fattori di instabilità?

 Non credo ci siano fattori di instabilità in quanto l’investimento nei mercati emergenti fa affidamento principalmente su tre fattori. Il primo è la crescita globale, che in base alle stime del FMI (Fondo Monetario Internazionale) dovrebbe accelerare dello 0,5%, dal 3% al 3,5%. Il secondo è il rialzo delle quotazioni delle materie prime, grazie alla stabilizzazione della Cina e dei mercati globali.  Infine, vi sono le ragioni di scambio. Quest’ultimo fattore rappresenta la maggiore incognita del 2017 poiché non siamo sicuri di quali saranno le politiche commerciali e protezionistiche, così come non sappiamo quali ripercussioni avranno sul mondo emergente. Credo che nel momento in cui le politiche commerciali si rivelino meno pesanti rispetto a quanto temuto, i mercati emergenti potrebbero registrare ottime performance nel 2017, specialmente se si considera che i loro fondamentali economici hanno già iniziato a migliorare.

Anche il fattore generazionale (si tratta qui di Nazioni ‘giovani’ e prolifiche) gioca a favore dei Paesi emergenti, in Asia come nell’Africa Sud-Sahariana e in alcune Nazioni del Sud America, Brasile in primis. Abbiamo visto quanta rilevanza questo elemento abbia avuto nelle politiche governative cinesi (politica del figlio unico). Ma ritiene che nel lungo periodo anche questo fattore “tenga” o sia anch’esso dotato di una qualche eccessiva volatilità?

E qui sta il punto cruciale: tutti i Paesi hanno le stesse potenzialità.  Per esempio, un miglioramento delle ragioni di scambio dovrebbe avvantaggiare i Paesi esportatori di materie prime, come Perù, Sudafrica, Colombia, Cile e Russia. Ne consegue che, all’interno delle obbligazioni in valuta locale dei mercati emergenti, quelle delle Nazioni esportatrici di commodity con tassi d’interessi elevati, ma anche con valute sottovalutate, dovrebbero offrire le maggiori opportunità di rendimento come, in particolare Indonesia, Russia, Brasile, Vietnam.


In che modo USA e soprattutto UE (i principali investitori esteri ed i principali acquirenti sulle piazze internazionali) possono competere quando il costo-lavoro ed i tassi di sviluppo del PIL di Nazioni come Bangladesh e Vietnam si spingono così fortemente in avanti?

 La Cina non è più il Paese preferito dalle imprese per il costo della manodopera. Il dato ormai chiaro risulta avvalorato dalla tabella compilata dal Fondo Monetario Internazionale sul costo del lavoro in Asia, La Cina figura tra quelli più “cari”, superata soltanto (ma di poco) dalla Thailandia oltre che dalla Malaysia che ormai è entrata decisamente nello scaglione dei Paesi “intermedi”.

Questa la situazione del costo del lavoro annuo compresi i contributi (l’incidenza dei contributi su lordo viene indicata tra parentesi).

Myanamar 401 –
Cambogia 672 –
Bangladesh 798 –
India 993 (10%)
Pakistan 1.052 (7%)
Indonesia 1.089 (6%)
Vietnam 1.152 (15%)
Laos 1.157 (9,5%)
Sri Lanka 1.619 –
Nepal 1.889 –
Mongolia 2.004 –
Filippine 2.246 (9,4%)
Cina 2.250 (50%)
Thailandia 2.451 (6,9%)
Malaysia 5.824 (23%).
 Fonte: FMI

In alcuni paesi, come la Cambogia, il costo del lavoro è pari a un terzo di quello cinese.