General

Italia inaffidabile, ora anche la Germania si prepara alla fine dell’Euro

3 Gennaio 2016

Gli ultimi mesi del 2016 sono disseminati di indizi: sono proprio i tedeschi, sinora i più strenui difensori della moneta unica, a parlare dell’Italia fuori dalla moneta unica. Al punto tale da pensare che la fine dell’Euro, a Berlino, non sia più tabù



Un indizio è un indizio. Due indizi sono una coincidenza e tre sono una prova. Viene in mente Agatha Christie ripensando all’ultimo mese del 2016. Che sembra far presagire che all’Italia possa essere riservata, nel 2017, una brutta sorpresa. Prima, le dichiarazioni di Clemens Fuest, uno degli economisti tedeschi più vicini al Governo e ai vertici delle istituzioni comunitarie, che – in un’intervista al Corriere della Sera – ha fatto sapere che non può più essere considerata un tabù l’uscita dell’Italia dall’Euro. Poi, le docce fredde della Banca Centrale Europea sulla proposta di allungare i tempi previsti sul tentato intervento di mercato sul Monte dei Paschi di Siena, e sull’entità dell’investimento necessario da parte dello Stato per salvare la banca.

Tre segnali che convergono – in pochi giorni – e sembrano dire che la pazienza nei confronti dell’Italia si stia esaurendo e che la fine dell’esperienza del governo Renzi possa aver fatto precipitare la situazione. Del resto c’è un numero, che alla Banca Centrale Europea definiscono il Target 2, che dice che dall’Italia stanno uscendo ingenti capitali. E che lo fanno – questo l’elemento più preoccupante – a velocità crescente: tra Maggio e Ottobre del 2016 dall’Italia sono “fuggiti” 80 miliardi di Euro. La Spagna, che è seconda in questa classifica, ne ha persi solo 20. Tale perdita, peraltro, è quasi interamente dovuta al disinvestimento che gli stessi cittadini italiani fanno rispetto ai titoli del proprio debito pubblico spostandosi verso l’estero. Nei prossimi mesi arriveranno i dati che aggiorneranno tale situazione al periodo dopo il referendum ed allora l’allarme potrebbe diventare rosso.

Ecco che quindi ci potremmo ritrovare di fronte a una nuova tempesta perfetta: in cui la dipendenza dal “metadone” degli acquisiti della Banca Centrale Europea risulta essere ancora più forte, proprio nel momento stesso in cui la durata della terapia (e la sua intensità) potrebbe ridursi. Il tutto, mentre sono gli italiani, per primi, a certificare con le proprie scelte la sfiducia nel proprio sistema. Del resto, in Germania è da tempi non sospetti che sostengono che l’ombrello protettivo del Quantative Easing sia “diseducativo” facendo venir meno gli incentivi più forti alle riforme: manovre come l’ultima finanziaria (che continua a spendere sulle pensioni e a non trovare soldi per dare prospettiva alle generazioni più produttive) hanno fatto di tutto per confermare questa paura. Ci ha pensato il referendum, infine, per indebolire anche l’ultima speranza che lo stesso Schaeuble, l’austero Ministro delle finanze tedesco, affidava ad un governo che è stato sconfitto.

In una situazione simile, quindi, non è improbabile immaginare che tra i tedeschi potrebbe cominciare a farsi strada la proposta indecente: dopo che l’Italia lo ha minacciato per anni, potrebbero essere proprio loro a cominciare a pensare di lasciare l’unione monetaria, insieme ai Paesi più forti. O, comunque, ad aprire una vera e propria discussione sulla possibilità di una separazione monetaria, che fino a solo qualche mese fa era ritenuta impossibile.

Certo tutto ciò non è concepibile prima delle elezioni tedesche di settembre. E comunque, una simile ipotesi dovrà fare i conti con la forte resistenza di Angela Merkel, l’unico leader davvero europeista: l’unica che ha conosciuto il dolore dei muri (essendo cresciuta nella Germania dell’Est) e che, probabilmente, sarà riconfermata Cancelliera. Quel che è certo è che il dossier Italia – come aveva previsto il Financial Times ed è, forse, l’unica previsione che l’FT ha azzeccato in questo annus horribilis – sarà quello che cambierà quasi per inerzia la visione sull’unione monetaria: da matrimonio senza possibilità di divorzio ad accordo che, come tutte le costruzioni umane, può anche fallire. E il cui fallimento non potrà non aver ripercussione sulla stessa forme di un’Unione di cui era baluardo ideologico. E, tuttavia, come la stessa Merkel sa bene, una separazione consensuale potrebbe, a quel punto, essere preferibile ad una guerra fredda che per anni ha depotenziato un progetto che ha grandi meriti ma deve recuperare quel pragmatismo che è necessario a qualsiasi visione.

Una possibilità per l’Italia, in effetti, ci sarebbe, per evitare un esito che potrebbe essere catastrofico – si pensi solo all’esplosione di un debito pubblico denominato in Euro se si decidesse di riadottare una moneta nazionale il cui valore sarebbe automaticamente svalutato dall’impossibilità di fare un qualche affidamento sulla cordata che ci lega ad uno dei Paesi più affidabili del mondo – o, perlomeno, per arrivare ad una rinegoziazione di un Patto che non funziona in una posizione che non sia di debolezza: una possibilità che dipende tutta dal nuovo governo: riprendere, con umiltà, senza clamori, la strada dei cambiamenti concreti (non più quelli annunciati e rimasti a metà strada) che nel tempo, il pochissimo che ci è rimasto, recuperino fiducia. È una strada strettissima ma che non ha alternative e che tocca al prudente Gentiloni percorrere senza indugi.