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Rifugiati, l’Odissea dei palestinesi siriani

4 Dicembre 2016

In fuga dalle bombe di Assad, sono arrivati a Gaza. Dove però non hanno diritto agli aiuti di Unhcr e Unrwa. La storia di Mohamed e dei suoi figli è quella di altre 300 famiglie. Abbandonate e condannate alla povertà.

Come milioni di siriani, Mohamed Gandour e la sua famiglia sono fuggiti dagli orrori della guerra civile che dilania il Paese. Ma «noi non siamo siriani», racconta a Lettera43.it. «Io sono un palestinese figlio di rifugiati del 1948 nato in Siria». Purtroppo nel suo esodo Mohamed ha scelto la destinazione peggiore: la Striscia di Gaza.

300 FAMIGLIE IN FUGA. A partire dal 2011 circa 300 famiglie di palestinesi siriani hanno cercato rifugio a Gaza. Oggi sono una dozzina quelle rimaste bloccate nella Striscia. La situazione di queste persone è particolarmente drammatica. Sono escluse dal sostegno offerto ai rifugiati dall’Unhcr, perché non sono profughi siriani. Non possono accedere ai servizi garantiti dall’Unrwa, perché non sono palestinesi riconosciuti dall’Agenzia delle Nazioni Unite a Gaza e non hanno documenti validi per lasciare il territorio.

A GAZA ATTRAVERSO L’EGITTO. Molte di queste famiglie, come quella di Gandour, sono giunte a Gaza passando dall’Egitto. «Subito dopo il nostro arrivo la situazione al Cairo ha iniziato a peggiorare. Allora siamo venuti a Gaza usando uno dei tunnel del contrabbando, poco prima che l’esercito egiziano li chiudesse nel 2013». La chiusura delle gallerie e la devastante guerra con Israele del 2014 hanno portato l’economia di Gaza al collasso. Il governo di Hamas, che controlla la Striscia, non ha risorse finanziarie per fornire aiuti ai palestinesi arrivati dalla Siria. «In questi anni abbiamo sentito tante promesse, ma nessuna è stata mantenuta», dice Mohamed.

È una piccola comunità quella dei palestinesi di Siria, che in tutti i Paesi dove sono fuggiti sono costretti a vivere in un vero e proprio limbo. A Gaza, però, la situazione è ancora più drammatica. Oltre a non ricevere aiuti né dall’Unhcr né dall’Unrwa, non possono avere alcuna tutela giuridica. «Qui nella Striscia non esiste una missione diplomatica della Siria. Quindi, non possiamo rinnovare i nostri passaporti, far registrare i nostri matrimoni o i nostri defunti e non possiamo dichiarare la nascita dei nostri bambini».

MANCA UNO STATUS GIURIDICO. Essendo entrati clandestinamente a Gaza non possono neppure lasciarla legalmente. In mancanza di uno status giuridico, di un lavoro e di qualsiasi assistenza i palestinesi di Siria possono sperare solo in un miracolo che gli permetta di lasciare la Striscia. Mohamed parla così della sua vita a Daraya, vicino a Damasco. «Avevamo una bella casa e il mio lavoro di grossista di materiali edili andava molto bene. Nel 2011 i ribelli hanno occupato la zona, la casa e il magazzino sono stati distrutti».

I BOMBARDAMENTI DEL 2014. L’anno successivo, prosegue, «con tutta la famiglia siamo scappati in Egitto, ma quando è stato cacciato il presidente Mohammed Morsi la situazione si è deteriorata velocemente per noi. Avevamo solo due scelte: o le barche della morte verso l’Europa o il trasferimento a Gaza dove mia moglie aveva dei parenti». Rinchiusi nella Striscia sono miracolosamente sopravvissuti ai bombardamenti del 2014, ma ora non sanno come andare avanti.


I pochi soldi che Mohamed guadagna lavorando a giornata bastano a malapena per pagare l’affitto della stanza dove vivono in cinque. Nella Striscia la casa è un problema per tutti gli abitanti. Le autorità sono ancora impegnate nella ricostruzione degli edifici danneggiati nella guerra di due anni fa. E oltre 11.200 famiglie sono ancora sfollate.

UN OSPEDALE COME CASA. «Un mio amico, anche lui proveniente da Daraya, ha trovato casa in ospedale, l’al-Wafa», dice Mohamed. «Sua moglie ha la distrofia e può vivere solo attaccata al respiratore. Da un anno lui e i quattro figli dormono su materassi a terra intorno al letto della donna».

NESSUN DOCUMENTO UFFICIALE. I palestinesi siriani tirano avanti con lavori umili e con le donazioni occasionali di qualche associazione umanitaria locale. «Sono disoccupato e due anni fa è nato qui il nostro secondo figlio», conclude Mohamed. «Il bambino non ha documenti ufficiali e non ha nessuna cittadinanza. Il solo certificato è un foglio dell’ospedale che riporta il suo nome e la data di nascita. Forse per tutti noi sarebbe stato meglio restare sotto le bombe in Siria».