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Sudan. Le brave ragazze non protestano

di Bianca Saini, nigrizia, 12 Aprile 2016.

In
Sudan le donne vivono già in un contesto fortemente discriminatorio. 

Quelle che inoltre osano osteggiare il potere del regime El-Bashir
pretendendo diritti, come le attiviste o le manifestanti, subiscono
abusi gravissimi ed orribili. 

Un rapporto di Human Rights Watch ne ha
raccolto le testimonianze.

In
Sudan le donne che si oppongono al regime islamista di Khartoum
rischiano di essere vittime di minacce ed abusi forse più e
sicuramente in modo diverso degli oppositori uomini. Lo documenta un
recentissimo rapporto
di Human Rights Watch (Hrw) dal titolo, “Good Girls Don’t
Protest”
, e dal sottotitolo altrettanto esplicito “Repression
and Abuse of Women Human Rights Defenders, Activists, and Protesters
in Sudan” (Repressione e abusi di donne che difendono i diritti
umani, attiviste, e manifestanti in Sudan).
Le ricercatrici hanno
intervistato 85 donne tra il novembre del 2014 e il gennaio di
quest’anno. 

Erano attiviste di diverse organizzazioni della società
civile e per la difesa dei diritti umani e hanno documentato
attraverso le loro testimonianze gli abusi gravissimi, fino allo
stupro di gruppo, a cui sono state sottoposte da parte delle forze di
polizia, ed in particolare del servizio per l’intelligence e della
sicurezza nazionale (Niss). 

Molte sono state intervistate a Khartoum
o nella città gemella di Omdurman, ma anche in altre aree del paese,
come il Darfur e anche all’estero.

Donna inferiore per
legge

 

Questi abusi
riflettono la condizione subordinata della donna nella società
sudanese da quando il regime islamista del Fronte nazionale islamico,
nominatosi poi Partito del congresso nazionale (Ncp) e ancora al
governo, ha preso il potere nel 1989. Da allora la legge ha
istituzionalizzato la subordinazione delle donne. 

In particolare
introducendo il crimine di offesa alla moralità pubblica in forza
del quale sono state obbligate ad adottare un certo modo di vestire,
hanno avuto limitazioni nel partecipare alla vita pubblica, possono
subire pene degradanti e contrarie alle norme internazionali, quali
la lapidazione e l’uso della frusta. Il rapporto fa luce anche
sulla generale impunità di chi abusa delle donne, anche in modo
gravissimo, come la violenza sessuale di gruppo, e perfino quella
perpetrata nelle stazioni di polizia.

Testimonianze orribili
 

È
il caso, ad esempio, di Safiya Ishaq, artista e attivista del gruppo
di opposizione giovanile Girifna, organizzatore di diversi momenti di
protesta a partire dal 2011. 

Safiya partecipò alle dimostrazioni del
30 gennaio 2011. 

Fu presa da due uomini in abiti civili e spinta su
una macchina mentre faceva acquisti due settimane dopo. 

Fu portata in
un ufficio del Niss dove fu picchiata, presa a calci, insultata con
offese sessiste e interrogata da diversi uomini sulla sue attività. 

Durante l’interrogatorio venne denudata e svenne. Quando si riprese
due uomini la stavano tenendo mentre un terzo la violentava; la
violentarono a turno tutti e tre per diverse ore. Poi la rilasciarono
senza accuse precise, minacciandola di violentarla ancora se avesse
continuato a militare per Girifna.
 

Simile esperienza ha
raccontato Samia, che ha preferito usare uno pseudonimo, attivista di
un partito di opposizione. È stata fermata il 2 aprile dell’anno
scorso, pochi giorni prima delle elezioni, mentre usciva di casa per
distribuire dei volantini. 

Tre uomini l’hanno trascinata su una
macchina, l’hanno portata in un luogo isolato, l’hanno legata ad
un albero e insultata: «Voi donne attiviste e membri di partito
siete tutte
sharmutte»
(cioè prostitute). 

Infine l’hanno violentata a turno e minacciata
di rappresaglie se avesse raccontato l’episodio a qualcuno. 

Fu poi
fermata di nuovo il 25 aprile e minacciata in modo ancor più
pesante. 

Durante l’intervista con la ricercatrice di Hrw, in
maggio, faceva fatica a parlare in modo coerente ed era chiaramente
traumatizzata.

Indifese
 

Molto
spesso le donne sudanesi non godono di forme adeguate di protezione. 

Soprattutto chi è vittima di violenza spesso non denuncia l’abuso
subito. 

Molte vengono scoraggiate dalle famiglie per evitare di
aggravare la loro già difficile condizione con l’isolamento
sociale. Molte altre vengono disincentivate dalle autorità
competenti stesse che, neanche troppo velatamente, minacciano
conseguenze se non si tiene la bocca chiusa.
 

È ancora il caso di
Safiya, che ebbe il coraggio di tentare di denunciare le violenze
subite. Ma alla stazione di polizia le fu detto che il suo racconto
non poteva essere veritiero perché le forze di sicurezza non si
macchiano di simili colpe. 

Le fu infine caldamente consigliato di non
proseguire con l’azione legale, perché avrebbe macchiato
indelebilmente il nome della sua famiglia. 

Dunque è chiaro che nel
Sudan del governo islamista di Omar El-Bashir la violenza è
perpetrata impunemente come strumento per isolare socialmente con un
marchio d’infamia le donne violate e renderle inoffensive.
Safyia,
sotto la pressione del trauma subito e della paura di nuove
ritorsioni lasciò il paese nel marzo del 2011 e vive ora in esilio
in Francia. Anche Samia è ora in cura all’estero. 

Come loro, molte
altre donne traumatizzate e minacciate hanno preferito iniziare una
nuova vita altrove.

Consuetudine
 

Il
rapporto sottolinea come questo genere di abusi siano diventati
frequenti soprattutto a partire dal 2011, dopo la secessione del Sud
Sudan. 

Nel paese allora si ebbe un irrigidimento nell’applicazione
delle norme derivate dalla legge islamica mentre aumentavano le
manifestazioni pubbliche di protesta a causa della crisi economica e
della cresciuta instabilità, con l’inizio di due nuovi conflitti,
nel Sud Kordofan e nel Blue Nile. 

Le donne parteciparono numerose e
furono particolarmente attive, suscitando il tipo di reazione sopra
descritto.

Il 5 febbraio di quest’anno, Hrw ha
scritto una lettera al governo sudanese informandolo di quando emerso
dalla ricerca e richiedendo informazioni su quanto stava succedendo
nel paese riguardo agli abusi verso attiviste e militanti. 

Al momento
della pubblicazione del rapporto non si era avuta ancora nessuna
risposta.