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Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio

Di Marilisa Lorusso, balcanicaucaso, 12 aprile 2016.



L’istigazione all’odio, da
entrambe le parti, è da sempre strumento per alimentare il conflitto
in Nagorno Karabakh.

La guerra attecchisce dove il terreno
è fertile.  

L’escalation
in Nagorno Karabakh
– che ha portato agli scontri registrati dal
2 aprile e al successivo cessate il fuoco del 5 aprile – è
foraggiata non solo da una campagna di riarmo, ma anche da una
continua e sistematica campagna di istigazione all’odio che dura
dalla fine degli anni ‘80 ad oggi. E che non ha mancato di dare i
propri frutti.

L’importanza
della parola

Le parole sono fondamentali, e possono
diventare il requisito per rendere accettabili una guerra o la
violazione dei diritti fondamentali. 

Vi sono parole chiave
catalizzatrici d’odio: un glossario saldamente ancorato a
riferimenti culturali che rimandano ai torti subiti e all’inumanità
del nemico. 

Parole che, se ripetute continuamente, rendono
impossibile pensare pragmaticamente a determinate questioni storiche,
amministrative, politiche o militari. 

Queste ultime diventano realtà
non negoziabili, non descrivibili con altre parole, e nemmeno
pensabili in altro modo.

Un ottimo studio su quali siano queste
parole nel percorso di istigazione all’odio fra armeni e
azerbaijani è stato condotto dallo Yerevan Press Club con lo “Yeni
Nesil” Journalists’ Union of Azerbaijan nel quadro del progetto
“Armenia-Azerbaijan Media Bias Reduction” dell’Eurasia
Partnership Foundation (EPF) e sostenuto dal UK Conflict Prevention
Pool. 

Ne
è emerso un glossario
di cliché, stereotipi e disseminazione di
informazioni infondate. 

E che certo si sarebbe potuto arricchire di
un intero capitolo raccogliendo i cinguettii contenenti gli hashtag
#Karabakhnow
o – ironicamente – #NKpeace

E’ l’ABC delle formule ripetute dall’una e dall’altra parte,
dei concetti che hanno smesso di essere tali per essere trasformati
in bellicosi slogan.

Da
fatti a slogan

Eredità storica, genocidio,
aggressione, occupazione, propaganda: questi alcuni dei termini
indicati dal rapporto. 

Tutte queste parole hanno un’origine, si
sono poi evolute con il deteriorarsi dei rapporti fra i due popoli, e
con la carica di risentimento reciproco che veicolano hanno a loro
volta contribuito al peggioramento dei rapporti.

L’eredità e il possesso storico del
Karabakh sono l’atavica mela della discordia. 

Ogni monumento, la
radice di ogni toponimo, ogni narrazione locale o proveniente da
fonti esterne che possa in qualche modo legittimare la presunzione di
possesso originario dell’area gode della massima visibilità. 

Per
cui se Askeran è parola azera, vuol dire che la fortezza di Askeran
e tutto il territorio circostante dell’attuale Karabakh sono di
diritto dell’Azerbaijan. 

Al contrario le rovine di Tigranakert
attestano che vi era una città fondata nel I secolo a.C. dal sovrano
armeno Tigran il Grande (oggi si trova nel Nakhchivan, territorio
dell’Azerbaijan), l’Armenia accampa allora rivendicazioni
territoriali sul Nakhchivan, perché sarebbe Armenia. 

Vale la regola
di chi è arrivato prima: la testimonianza più antica – fosse
anche di millenni, anzi, preferibilmente – stabilisce chi può
ritenersi autorizzato a viverci adesso.

Genocidio, aggressione, occupazione
sono termini promanati dalla guerra del 1988-1994. 

Scontri
interetnici e terribili eventi della guerra vengono etichettati con
la più pesante delle accuse: il tentativo di annientamento
dell’intera comunità, il genocidio. 

Questo vale tanto per il
massacro di Khojali
, del 1992 a danno degli azeri, una delle
pagine più cupe del conflitto e che avrebbe meritato di essere
investigato da una commissione imparziale, ai primi scontri
interetnici che portarono alle fughe di armeni da Sumqait

Per l’identità nazionale armena inoltre il concetto di genocidio
ha un valore particolare. 

E nella retorica di oggi gli azeri
rappresentano,
 mutatis
mutandis
, una continuazione
degli ottomani del 1915, turcofoni il cui unico scopo sarebbe di
cancellare dalla faccia della terra l’esistenza della nazione
armena.

L’aggressione sarebbe quella degli
azeri contro la pacifica popolazione del Karabakh che chiedeva la
riunificazione con l’Armenia, dell’Azerbaijan verso i suoi stessi
cittadini armeni, che mai avrebbero potuto accettare di vivere sotto
uno stato che li ha discriminati e perseguiti. O vice-versa sarebbe
quella dei terroristi armeni appoggiati dagli occupanti che hanno
cercato di causare la distruzione dello stato azerbaijano, e che
ancora oggi ne minerebbero l’integrità territoriale causando
infinite sofferenze agli sfollati, privati a causa dell’aggressione
e dall’occupazione dei diritti di sicurezza, di movimento, di
proprietà. 

 E alle reciproche accuse di aggressione di allora si
aggiunga quella fresca di questi giorni, in cui nessuno si assume la
responsabilità di aver mosso la prima operazione o offensiva. 

E lo
stesso vale per l’occupazione, per ogni metro di terra che è
conteso fra i due.

C’è poi il grande capitolo della
comunicazione nazionale e internazionale: le opere di propaganda di
cui ci si accusa reciprocamente. 

Baku patisce il ruolo della diaspora
armena e la visibilità che questa riesce a garantire alle cause
armene e ai rapporti (percepiti come preferenziali) fra Armenia e
alcuni mediatori nel conflitto come Francia e Russia.

Da parte sua l’Armenia leva gli
scudi contro la
caviar
diplomacy
e la crescita
del peso diplomatico e mediale dell’Azerbaijan legato al possesso
di risorse e allo sforzo economico del paese per autopromuoversi.

L’opinione
pubblica complice

 

L’opinione pubblica è protagonista
in questa corsa alla radicalizzazione. 

Sono gli stessi utenti della
comunicazione a diventare agenti propugnatori dei messaggi,
accettandone i termini di utilizzo e facendoli circolare a loro
volta. 

Contribuisce al deterioramento della qualità del dibattito
non solo chi genera deliberatamente informazioni false, o chi
utilizza i soliti cavalli di battaglia per visibilità o vantaggi
politici, ma anche chi dissemina la stessa retorica o le stesse
informazioni non verificate solo perché incoraggiano e confermano i
propri pregiudizi e generalizzazioni. 

E le voci dissonanti sono
stigmatizzate come traditrici.

Arrivando a situazioni grottesche: nel
2012 l’Armenia non
ha partecipato a Eurovision in Azerbaijan
a causa di una vittima
armena…per mano armena! 

Nell’imminenza del festival si era infatti
sparsa la voce della morte di un soldato di leva diciannovenne,
Albert Adibekyan, in uno scontro al fronte. Poi è arrivata la
smentita, era stato ucciso da un commilitone. 

Ma si sa che le
smentite non hanno mai lo stesso impatto comunicativo delle notizie,
e la macchina dell’indignazione si era già messa in movimento,
inarrestabile. 

E quindi ad Eurovision l’Armenia non ha partecipato.

Il meccanismo sociale del “condividi”
alimenta poi l’onda disinformativa e rende la soluzione di una
questione già di per sé complessa, carica di rischi per la
sicurezza interna e di implicazioni di politica internazionale, da
difficile a irrisolvibile. Proprio per questo il
people-to-people,
la
confidence building
quando si è a questo stadio non possono essere relegate a programmi
o progetti limitati a ONG, ma devono essere incluse in una riforma
del settore della sicurezza transfrontaliero come elemento cardine.