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Silvio Talamo racconti (parte II)


di Milena Rampoldi, ProMosaik e.V. – Un secondo racconto di Silvio Talamo, sulla vita fatta di esperienze piccole e cruciali, e anche di caramelle.
Trovata la porta del mercato
chiusa, dopo appena un attimo di smarrimento, Settimio si vide costretto a
cambiare direzione. L’edificio del mercato era un grosso parallelepipedo di
mattoni rossi  con agli angoli, in alto,
quattro piccole torrette, che in realtà sembravano lì solo per bellezza. Era
del tutto simile a molti altri fabbricati che di tanto in tanto si potevano
incontrare in città. Questo però rimaneva spesso aperto anche la domenica ed
era sempre pieno di bancarelle ammassate l’una all’altra. Lì in mezzo era
possibile trovare di tutto, prendere qualcosa al baretto e in più ascoltare i
musicisti che si fermavano per una mezz’oretta a suonare, cappello in terra,
con i loro amplificatori sbilenchi, prima di ripartire e tornare oltreconfine.   
 
Ormai non era più come un tempo. Ormai anche le cose più usate, purché in qualche modo graziose, arrivavano
a costare a volte anche il doppio. I prezzi salivano. Tutti si domandavano
perché, ma nessuno era ancora riuscito a darsi una spiegazione di un aumento
così repentino. Q
ualcuno certo, al suo apparire, aveva già notato le prime avvisaglie del
fenomeno in qualche centro vendita delocalizzato,
ma parlandone con gli amici, nessuno aveva 
poi dato davvero peso alla faccenda, finché i portafogli non avevano cominciato a piangere.
Nessuno aveva risposta. Nessuno
tranne qualche vecchio professore universitario e qualche intellettuale di
periferia, di quelli che non parlano mai in radio.
Solo che quando li si ascoltava,
ti portavano giù nei loro discorsi astrusi, da cui ogni tanto era possibile
carpire forse una parola o un concetto, per tornare subito dopo nell’ombra di
un interminabile analisi filosofico apocalittica sull’economia cittadina, in un
percorso troppo, troppo noioso.
La strada, come ogni domenica
mattina era quasi vuota e Settimio pensò che avrebbe potuto trovare qualcosa da
mangiare più a est, subito dopo il semaforo. Di buon mattino aveva trovato il
frigo di casa completamente vuoto e la sera precedente non aveva neanche
cenato. Lo stomaco era in subbuglio. Passeggiare però in quell’aria domenicale,
era cosi piacevole che smarrirsi e godersi la strada e quelle ore di luce non
era affatto una cattiva idea.
Camminando sovrappensiero,
all’improvviso, lo sguardo non poté fare a meno di posarsi  sulla vetrina di un negozietto che non aveva
mai visto prima.  La vetrata appariva
come una finestra splendente aperta tra le pareti inespressive che
troneggiavano alte sulla strada. 
Sembrava quasi che soffiasse dai suoi riverberi un grazioso chiarore
arcobaleno, ma il merito doveva essere 
certamente del riflesso del sole sul vetro. Sulla sinistra si vedeva spuntare
la porticina  della bottega, mentre
dentro, dall’altro lato del cristallo, era possibile scorgere un numero
variegato di formine colorate e allegre, quasi sorridenti,  sparse sugli scaffali in mostra.  Tanti scatolini di forma, colore e dimensioni
diverse che sbucavano tra le sagomelle luccicanti, ammucchiate con gusto qui e
lì sulle scansie…
 Erano caramelle.
In alto sulla porta, appeso ad un
braccio di ferro battuto, un cartello di legno recitava a mezz’aria: << Dolce! >>
Non era certo questo quello di
cui Settimio aveva bisogno, non certo la pizza che avrebbe potuto riempirgli la
pancia. Diede un’altra occhiata dentro. Pensò di doversi rimettere in marcia e
andare a mangiare.  Entrò.
Il negozietto non era poi così
luminoso. Difronte all’entrata si poteva vedere, nell’angolo, una piccola
scrivania dove un tipo con occhialini e capelli lunghi legati all’indietro
faceva forse dei conti  davanti al suo
portatile. Era presumibilmente il proprietario e dava l’idea di essere del tutto assorto nel suo battere sulla
tastiera chissà
che cosa, per segnare poi con una penna biro numeri a
molte cifre su un foglietto di carta. I piedi picchiavano ad ogni passo sul
pavimento di legno grezzo. Settimio fece giusto
in tempo a vedere dietro di sé un bambino con un sacchettino di carta bianco
uscire esultante dal ne
gozio, accompagnato per mano da uno dei genitori
che salutarono educatamente il padrone; il quale, a sua volta, mosse appena il
capo come per ricambiare, continuando a fissare il computer.
La pareti erano completamente
ricoperte di larghi scalfali di legno alti fino al soffitto e su ogni lato era
visibile un tripudio di caramelle colorate e di astucci tinti che davano l’idea
di essere quasi fluorescenti. Erano caramelle di tutto il mondo. Piccole,
grandi, sottili, lunghe, larghe e a chicchi. Confetti all’anice, certamente
provenienti dall’America latina, che come tanti ovetti riempivano tre caraffe
di vetro trasparente. Barrette di cioccolato del Congo avvolte in carta
maculata e traslucida dove erano stampati con un disegno strani semini di non
si sa quale pianta.  Gomme australiane a
forma di frutta, ognuna con tanto di foglia al sapor d’acacia. Bastoncini di
zucchero austriaci a uno e due colori che uscivano zampillanti da bicchieroni
ornati di fiorellini. Gelatine imperlate di granuli zuccherati poggiate su
fogli striati di cartone simili a vassoi ricamati. Caramelle morbide al gusto
di pino siberiano. Liquirizie che eruttavano a grappoli cascanti dagli scatoli
rivestiti di carta regalo. Spirali di panna densa e finte fragole alla vaniglia
contenute straripanti in scodellone di ceramica blu. Rose di marzapane
spruzzate di cioccolato e caffè. Animaletti piccini di pasta bianca che se ne
stavano riti sulle loro zampette rosse all’estratto di ciliegia. Tutte quelle
cosine rimanevano sospese in una armonia quasi perfetta. 
Ad un
certo punto, come ridestandosi, poté accorgersi però di uno strano personaggio
seduto in silenzio su una poltrona posta nell’angolo opposto alla scrivania.
Indossava pantaloni larghi sicuramente comodi ed una improbabile camicia stile
hawaiano azzurra. Guardava davanti a sé compiaciuto e beato, assolutamente
astratto, con un sorrisetto, a dire la verità, un po’ ebete o comunque questa
era l’impressione che se ne poteva avere. 
Una percezione quasi fastidiosa credette Settimio. Non capiva cosa
stesse facendo lì e neanche a che cosa fosse dovuta quella sua, almeno cosi
interpretabile, sfrontatezza.
Settimio
decise di tornare alle caramelle, chiese il permesso, prese uno di quei
sacchetti bianchi posti in vista su uno degli scaffali ed incominciò a
riempirli di caramelle. Fece una cernita molto accurata, dividendosi tra gusti
e mescolanze nuove e i suoi dolciumi preferiti. Non aveva mai avuto una
particolare predilezione per le caramelle, non più che per tutti gli altri diversivi
e distrazioni dell’appetito e del gusto, ma riempì soddisfatto il sacchetto,
portandolo al gestore che finalmente gli rispose con un sorriso. Il gestore
prese la calcolatrice a grandi numeri che aveva sulla scrivania e compilò uno
dei foglietti del blocco delle ricevute, riconsegnando il sacchetto con tanto
di scontrino timbrato al cliente.
<<Lui
che fa qui?>> chiese Settimio, non potendo trattenere la domanda, e
indicando, proprio mentre
riprendeva la busta, il personaggio visto in
precedenza.  << Bah! Può essere
chiunque. Ogni tanto va via … >> rispose troneggiando dallo schermo il
bottegaio. Settimio tornò al suo pacchetto e colto da una irresistibile crisi
di golosità, decise di non aspettare. 
Ficcò lo sguardo tra le prelibatezze che aveva comperato e decise di
partire con un pezzetto di cioccolato africano. 
Lo sbucciò tirando via l´incartamento e non appena fu aperto, venne in
un attimo investito da un odore così forte e 
pungente che sembrava come se un´ intera piantagione di cioccolato fosse
precipitata tra quelle briciole marroni e il tutto non aspettasse altro che di
essere morso. Sentiva la testa come innaffiata da una pioggia minuta d’acqua
fresca e quell’aroma fu il degno prologo ad un assaggio che apparve troppo
breve per poter essere goduto fino in fondo. Prese subito un altro pezzo di
cioccolato e anche lì, una volta in bocca, la consistenza sfumò subito in una crema
dolceamara al palato, prima di evaporare completamente nella gola.
Prese ora dei confetti colorati
che, spaccati tra i denti e aperti in bocca, esplosero in un piacevole effluvio
di frutta esotica, una fragranza che non solo inorgogliva l’animo ma che, una
volta scesa giù, si irrorò con un’ondata lungo tutta la spina dorsale,
invitando lo sguardo a socchiudersi.
Prese il marzapane, ingoiando piccoli cuoricini che si
allargavano e si accoccolavano nello stomaco che non sentiva più, ormai, i
morsi della fame. Tutto era una breve festa di sapori personali. Una caramella
dietro l’altra era un tocco di leggerezza più dolce di quello precedente.
Quelle piccole perle sciroppose
dischiudevano a gocce liquori che davano l’impressione di espandersi nel corpo
come un bicchiere di latte fresco al primo mattino, lasciando divaricate le
narici e fluendo attraverso le vene   fin
sotto la pelle.  Avrebbe dovuto
andarsene, era arrivato il momento. Era rimasto
lì non si sa quanto tempo, certo troppo a lungo per i suoi impegni. Il
bottegaio sornione, forse avvezzo alla bontà
delle sue caramelle, come
per non contraddirsi continuava a lavorare sulla tastiera. Settimio avvistò giù
in fondo al suo pacchetto quello che avrebbe deciso sarebbe stato l’ultimo
assaggio, il pezzo finale: una gelatina arancione. La prese trionfante, e volle
provarla non senza qualche senso di colpa. Era buonissima.  La pasta si
scioglieva tra le labbra,
diventando frizzante una volta schiacciata con
cura dalla lingua, dileguandosi in un succo d’aranciata minerale  che avrebbe potuto vincere  la sete più forte  anche in un pomeriggio estivo messicano.
Quest’ultimo zuccherino gli provocava un tumulto  di sensazioni
c
he avrebbe ricordato a lungo, pensava. Si passò una mano tra i capelli
lisci, scosse con una manata i grossi pantaloni di tela sbuffanti all’altezza
della coscia.  Si chiuse gli ultimi
bottoni della camicia hawaiana e poggiò la nuca all’indietro per stare più
comodo sullo schienale. Sorrise meditando su quel grumo di esperienze interiori
così inusuali, mentre lasciava le braccia riposare sui braccioli. Si disse,
prendendo coraggio, che quella sarebbe stata l’ultima caramella della giornata,
ma decise di prendersi il suo tempo prima di alzarsi ed andarsene. Sì, sarebbe
rimasto giusto un altro po’, sicuro che al momento opportuno, ma di tanto in
tanto, sarebbe tornato. 
 Silvio Talamo