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A Roma etiopi ed eritrei si riscoprono fratelli.

di Paola
Soriga, internazionale
, 04 Aprile 2016
Una messa della chiesa ortodossa copta ospitata dall’istituto Teresa Gerini in via Tiburtina, a Roma, marzo 2016. - Simona Pampallona
In fondo a
via Tiburtina, a Roma, vicino a Rebibbia, nel cortile di un istituto
dei Salesiani non più in uso, una domenica mattina di febbraio
decine di persone sono riunite per una funzione religiosa, nel vento
freddo e nel sole. 
Indossano, uomini e donne, in questo cortile sulla
Tiburtina, il tipico velo bianco decorato ai bordi, sopra ai
pantaloni e alle gonne. Molti hanno gli ombrelli colorati delle
feste, cantano e battono le mani al ritmo di un tamburo. Quelli un
po’ più lontani dall’altare fanno foto con i telefonini, quelli
che restano in fondo chiacchierano e controllano i bambini che
giocano, da una stanza arriva il profumo del pranzo.
Il tigrino,
la lingua parlata in Eritrea, e l’amarico, la lingua principale
d’Etiopia, derivano dal ge’ez: lingua antica, semitica, ancora
usata da entrambi i popoli per le funzioni religiose cristiane di
rito copto ortodosso. Ascoltiamo i canti e le letture in ge’ez,
mentre brucia l’incenso e io mi ricordo di una festa del Meskal in
una piccola città lungo la strada che da Addis Abeba va verso est,
verso il mare, durante il breve viaggio che ho fatto in quelle terre
qualche anno fa: il cortile della chiesa pieno di persone, di
bambini, la ferrovia davanti, una grande pira che ha cominciato ad
ardere al tramonto, la luna già alta, mentre la gente ci ballava
intorno, quasi come al mio paese la sera della festa di Sant’Antonio. 
 In via Montebello, a Roma, marzo 2016. - Simona Pampallona
Qui sulla
Tiburtina i fedeli sono soprattutto etiopi. 
I loro fratelli eritrei
si riuniscono per la messa ogni domenica in una piccola chiesa di San
Salvatore in Campo, a Campo dei fiori, nel centro di Roma. 
Uso la
parola fratelli perché è quella che ho sentito più spesso da loro,
nonostante, o forse proprio per via della guerra che ha diviso i due
stati dal 1998 al 2000 e che ancora genera tensioni e conflitti.
Eritrei ed
etiopi sono tra i primi a chiedere lo status di rifugiati, perché
fuggono da guerre e carestie, persecuzioni e governi autoritari
Gli etiopi
e gli eritrei, pur nella varietà delle etnie presenti in entrambi
gli stati, hanno in comune, oltre alle origini linguistiche,
tradizioni e cultura, compresa quella culinaria, secoli di storia.
Le prime
ondate migratorie risalgono agli anni settanta, ma già dagli anni
sessanta cominciano ad arrivare soprattutto le donne eritree, al
seguito di mariti italiani che lasciavano la colonia, e continuano
ancora oggi.
Non sono
comunità molto numerose, non sono nemmeno fra le prime venti in
Italia: appena
8.100 etiopi e 10.610 eritrei
in tutto il paese, ma sono tra le
prime tra quelle che chiedono lo status di rifugiati, perché fuggono
da guerre e carestie, persecuzioni politiche e governi autoritari
(gli eritrei in particolare, che sono secondi soltanto ai siriani per
numero di richiedenti asilo).
È
un’emigrazione soprattutto femminile: il 61,1 per cento tra gli
etiopi (e le ragazze etiopi in Italia sono, tra gli stranieri, quelle
con più iscrizioni nei licei) e il 42,2 per cento tra gli eritrei.
Sugli
eritrei in Italia ci sono due documentari:
Asmarina,
di Alan Maglio e Medhin Paolos del 2016, che racconta Milano, e
Good
morning Abissinia
, di Lucia
Sgueglia e Chiara Ronchini (2005), che racconta gli eritrei a Roma.