IL PONTE BALCANICO. Josip Broz Tito e il Movimento dei non allineati
Marco Siragusa 3 maggio 2019 |
Domani ricorre il 39esimo anniversario della morte del leader della Jugoslavia socialista. Figura controversa e fortemente criticata dai nemici del blocco capitalista quanto dai suoi compagni sovietici, Tito rappresentò l’ideatore del Movimento dei paesi non allineati.
Il 4 maggio 1980 durante la partita tra i padroni di casa dell’Hajduk Spalato e i rivali della Stella Rossa di Belgrado venne dato l’annuncio della morte del Maresciallo Josip Broz Tito. Dopo ben 35 anni, la Jugoslavia socialista perdeva la sua guida e uno dei più carismatici leader mondiali. Capace di sfidare l’egemonismo sovietico del periodo staliniano, senza per questo cadere nella sfera d’influenza statunitense, Tito cercò di applicare alla politica internazionale i principi dell’autodeterminazione dei popoli e dell’autonomia delle scelte politiche di ogni singola nazione già alla base della costruzione del socialismo jugoslavo. Immediatamente dopo la rottura definitiva con l’URSS del 1948 la dirigenza jugoslava aveva cominciato a guardare con interesse alla creazione di un “terzo blocco”, equidistante da quello capitalista e da quello sovietico ma non per questo neutrale. Tito, inizialmente scettico, comprese presto che questa scelta avrebbe accresciuto enormemente la sua fama a livello mondiale rendendo così più complicato un intervento dei due blocchi contro il paese. Il leader jugoslavo trovò il suo più grande alleato nel primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, interessato a dare vita ad un’alleanza anticoloniale tra i paesi dell’Asia e dell’Africa.
Nel dicembre 1954 Tito fu il primo leader europeo a recarsi in visita ufficiale in India dopo l’indipendenza raggiunta nel 1947. Durante il suo soggiorno ebbe la possibilità di tenere un discorso al parlamento indiano dove ribadì la necessità di una «coesistenza attiva» tra gli Stati non allineati ma soggetti all’ingerenza delle grandi potenze. Appena due anni dopo, nel 1956, ai due leader si aggiunse anche il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, anch’egli interessato a creare un terzo fronte contro l’egemonismo sovietico e il rapace capitalismo occidentale.
Tito era ben cosciente che senza il coinvolgimento dei paesi africani la lotta per la pace e per il superamento della politica di divisione del mondo in sfere d’influenza non avrebbe potuto ottenere risultati concreti. Nel 1958 decise così di organizzare, a bordo della nave presidenziale Galeb, un viaggio di ben dieci settimane tra l’Asia e il continente africano. Secondo alcune ricostruzioni storiche all’interno della nave erano state nascoste ingenti quantità di armi da far arrivare al Fronte di liberazione algerino tramite l’intermediazione di Nasser e del leader indonesiano Sukarno. Il supporto militare era accompagnato anche da un coraggioso programma di aiuti economici, circa 11 miliardi di dollari, rivolto ai paesi più poveri.
L’uccisione di Patrice Lumumba in Congo nel febbraio 1961 diede la spinta definitiva alla convocazione di una conferenza dei paesi non allineati. Per convincere personalmente i leader africani, Tito decise di organizzare un altro viaggio toccando paesi come Ghana, Togo, Liberia, Marocco, Tunisia e ovviamente l’Egitto. Durante il suo soggiorno al Cairo, nel mese di giugno, si svolse una riunione con la presenza di oltre venti capi di Stato africani e asiatici che stabilì la convocazione di una Conferenza da tenere a settembre a Belgrado. Quest’ultima vide la partecipazione di 25 paesi afro-asiatici più la presenza, in veste di osservatori, di Brasile, Bolivia ed Ecuador. I temi trattati erano legati alla lotta contro il colonialismo e l’imperialismo, il disarmo, la coesistenza pacifica dei paesi non appartenenti ad uno dei due blocchi, il sottosviluppo economico di una larga parte del mondo e il supporto ai movimenti di liberazione nazionale. Durante la Conferenza non mancarono dissidi e divergenze legate soprattutto alla diversa valutazione sulla trasformazione dell’incontro in un organismo stabile, decisione avversata dall’India interessata a trattare solo questioni contingenti.
La soluzione trovata soddisfaceva pienamente la Jugoslavia che vedeva riconosciuta la creazione del Movimento dei paesi non allineati, anche se la sua nascita ufficiale avvenne solo durante la Conferenza di Lusaka (Zambia) nel 1970, e la nomina di Tito a primo segretario generale. Il successo politico-diplomatico da un lato elevò il Maresciallo a leader mondiale e difensore degli interessi dei paesi più poveri, dall’altro aumentò le pressioni delle grandi potenze nei confronti della stessa Jugoslavia e dei suoi partner.
Il ruolo di portavoce dei paesi non allineati e la forte amicizia con il premier egiziano Nasser, spinsero Tito a tentare una mediazione nella guerra arabo-israeliana dei Sei giorni, nel 1967. Durante il conflitto la Jugoslavia non fece mai mancare il suo sostegno alla causa araba, come dimostrato dalla votazione in favore della Risoluzione Onu 3349 che equiparava il sionismo al razzismo. Dopo la vittoria israeliana, Tito presentò un piano di pace che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati dopo il 5 giugno 1967 in cambio della presenza di caschi blu Onu su quei territori. Il piano fallì sia per l’opposizione israeliana che per quella di Nasser, per nulla intenzionato a riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele.
Il fallimento non ridusse l’attenzione e l’impegno jugoslavo nei confronti dei palestinesi, che al contrario si rafforzò con incontri annuali tra Tito e Yasser Arafat, né delle lotte anticoloniali in Africa, con il supporto militare ai movimenti di liberazione in Angola, Mozambico e Guinea-Bissau. La collaborazione e la coesistenza pacifica tra i paesi non allineati vennero sostenute non solo tramite aiuti militari ed economici ma anche attraverso scambi culturali tra le università jugoslave e quelle degli altri paesi.
Negli ultimi anni di vita, il Maresciallo si impegnò costantemente nel mantenimento della pace a livello globale. La crisi economia e i mutamenti degli equilibri internazionali della seconda metà degli anni ’70 avevano però provocato un acuirsi delle tensioni interne al Movimento. Alcuni paesi, capeggiati da Cuba, misero in discussione il concetto di equidistanza rispetto ai due blocchi spingendo per un più aperto e netto sostegno all’URSS. Per Tito, che aveva condotto per decenni dure battaglie contro l’egemonismo sovietico in politica estera, questa proposta era del tutto inaccettabile soprattutto se proveniente da un leader, Fidel Castro, con cui erano già sorti in passato pesanti contrasti. Il documento finale del Congresso dell’Avana del 1979, che vide la partecipazione di 95 Stati, non citava il superamento dell’equidistanza ma rappresentò il declino definitivo di Tito e della Jugoslavia alla guida del movimento.
Nel frattempo, lo stato di salute del Maresciallo si complicava sempre più a causa del diabete che costrinse i medici ad amputargli una gamba. Il 4 maggio 1980 venne dato l’annuncio della sua morte. Per omaggiare la figura più importante della storia jugoslava del novecento venne organizzato un viaggio del feretro, lungo tutta la Federazione, a bordo del cosiddetto “treno blu”. A dimostrazione dell’importante ruolo svolto da Tito a livello mondiale, il suo funerale è ancora oggi considerato come il più grande mai svoltosi per un capo di Stato. Ad esso parteciparono i rappresentanti di 128 paesi, di cui 31 presidenti, 22 primi ministri e 4 re.
La sua morte rappresentò un duro colpo non solo all’unità interna della Federazione jugoslava, che di lì ad un decennio si sarebbe dissolta in una sanguinosa guerra civile, ma anche alla capacità dei paesi non allineati di incidere sugli equilibri internazionali e di sviluppare un’unitaria e autonoma politica per un mondo più equo e giusto.