TERRITORI OCCUPATI. L’università-colonia di Ariel e la protesta degli accademici
Chiara Cruciati 4 maggio 2019 |
La Società Italiana di Studi sul Medio Oriente non riconosce l’ateneo dell’insediamento illegale israeliano, dopo l’appello palestinese al quale hanno aderito oltre mille accademici israeliani.
Lo scorso febbraio SeSaMO, la Società Italiana di Studi sul Medio Oriente, ha risposto all’appello del mondo accademico palestinese: il rifiuto a riconoscere l’Università della colonia israeliana di Ariel.
Nata nel 1995 a Firenze, SeSaMo riunisce studiosi e studiose di diverse discipline e lavora alla promozione della ricerca su Medio Oriente, Nord Africa e Corno d’Africa. Durante l’ultima assemblea annuale, due mesi fa, alla presidentessa Daniela Melfa è stato chiesto di inviare una lettera al ministro dell’Istruzione, per invitarlo a «non accreditare o riconoscere in alcun modo l’Università di Ariel e le altre istituzioni di educazione universitaria situate negli insediamenti illegali israeliani».
A fine marzo nel sito di SeSaMo è stata pubblicata la lettera indirizzata al ministro Bussetti, in cui si sottolinea come per il diritto internazionale «il trasferimento della popolazione civile e la costruzione di migliaia di insediamenti all’interno di territori occupati militarmente» sono considerati «crimini di guerra». Con quella lettera per la prima volta una società di accademici italiani ha chiesto ufficialmente la sospensione delle relazioni con un’università coloniale israeliana.
In ebraico Ariel significa “leone di Dio”. Fondata nel 1978, a 11 anni dall’occupazione militare israeliana della Cisgiordania, Ariel è tra le quattro più grandi colonie nei territori occupati. Ventimila residenti, 15mila km quadrati di estensione, entra prepotentemente in Cisgiordania, a metà strada tra la Linea Verde del 1948 e il confine con la Giordania. «Tra 15 anni sarà una città da 100mila abitanti», prometteva un anno fa il sindaco Eli Shaviro. A marzo, in pieno clima elettorale, il premier Netanyahu ne annunciava l’ampliamento, 840 nuove case come “risposta” all’assassinio del soldato Gal Keidan e del rabbino Achiad Ettinger per mano di un 18enne palestinese, Omar Abu Leila.
Ariel è in effetti una città, l’opposto dell’immagine che può avere di una colonia chi non ha mai visto la Cisgiordania. Palazzine identiche tra loro, ospedali, centri commerciali, una zona industriale con 45 fabbriche occupano un terzo dell’area di giurisdizione del comune, assegnata da Tel Aviv in violazione del diritto internazionale. All’inizio ha accolto la classe media, gli impiegati delle due più grandi compagnie militari israeliane, l’allora Israel Aircraft Industries e la Israel Military Industries.
Negli anni ’90 è stata ricettacolo dell’immigrazione dall’ex Urss: arrivarono in Israele oltre un milione di russi cristiani (tutti chiusero un occhio, c’era da far crescere la popolazione israeliana). E infine l’ultima “migrazione”: a metà anni 2000 qui vennero trasferiti i coloni di Gaza, religiosi che hanno in parte modificato la natura laica dell’insediamento, distante dai movimenti religiosi che si ingrossavano nel resto della Cisgiordania occupata.
Nella narrazione israeliana, si legge nel sito del comune, Ariel è «una città nel cuore di Israele». Sparisce l’occupazione. Sparisce nella “normalità” della sua zona industriale e nella “normalità” della sua università. Fondata nel 1982 come filiale della Bar-Ilan University di Tel Aviv, dal 2004 è ateneo indipendente. Appena un anno fa una legge ad hoc l’ha posta sotto il ministero dell’Istruzione di Tel Aviv.
Conta 15mila studenti, 450 accademici e le facoltà di architettura, ingegneria, scienze naturali, scienze sociali, medicina: «L’Università di Ariel presenta una prospettiva nuova del sionismo contemporaneo e si batte per rivitalizzare i valori della costruzione dello Stato attraverso l’eccellenza nelle scienze e la ricerca – si legge nel sito – Rappresenta l’intero spettro della società israeliana: ebrei e arabi, laici e osservanti, nuovi immigrati e israeliani nativi».
Ma a renderla un polo di attrazione sono i 20 centri di ricerca, dalla cura del cancro all’innovazione cyber, dall’archeologia alla sicurezza nazionale. Ora sogna un’espansione esplosiva grazie ai 20 milioni di dollari donati dal miliardario Usa Sheldon Adelson.
Ma c’è chi non intende partecipare. A lanciare l’appello al boicottaggio è la campagna palestinese No Academic Business as usual with Ariel University (ministero dell’Educazione palestinese, Consiglio dei rettori, Federazione dei sindacati dei professori e Palestinian Human Rights Organization Council) che fa appello a istituzioni, governi e singoli accademici perché non riconoscano la legittimità di Ariel, definita «istituzione illegale e complice del sistema israeliano di oppressione che nega i diritti basilari dei palestinesi».
Un boicottaggio in diverse forme: rifiuto a partecipare a progetti congiunti e conferenze e a non pubblicare lavori dell’ateneo a meno che non si indichi la provenienza, “Territori palestinesi occupati”; e l’impegno a promuovere mozioni per il non riconoscimento dell’istituzione. E a denunciare quanto avviene su base quotidiana: il diniego israeliano di visti di ingresso a chi collabora con università palestinesi, il divieto di uscita da Gaza di studenti con borse di studio all’estero, gli ostacoli al diritto all’educazione dovuti ai checkpoint.
C’è chi ha risposto: oltre mille accademici israeliani, l’Associazione degli Antropologi israeliani e la Società israeliana di Sociologia, il Politecnico della Danimarca, l’Associazione europea degli antropologi sociali, la Kasersart University di Bangkok, la Exeter University. E ora SeSaMo.