LIBRI. Migranti di ieri, migranti di oggi: rileggere Kanafani
Chiara Cruciati 9 agosto 2018 |
Abu Qais, Asad e Marwan hanno perso la loro terra, la Palestina.
Vivono in Libano, nei campi sorti spontaneamente dopo la Nakba, la catastrofe del 1948. Non hanno un lavoro e si costruiscono, nella mente, un sogno: raggiungere il Kuwait, il petrolio, uno stipendio. Attraverso passaparola e intermediari individuano una via di fuga, un camion cisterna che clandestinamente gli faccia superare i confini. In Kuwait non arriveranno mai: moriranno, uno dopo l’altro, soffocati dal caldo in una cisterna ormai rovente a uno dei posti di blocchi sulla via.
«Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché? Perché? Perché?», è il grido compulsivo, rimbombante, dell’autista che li aveva nascosti dentro vivi e li ritrova cadaveri.
Ghassan Kanafani, tra i più noti scrittori e giornalisti palestinesi (lui stesso profugo, a 12 anni fuggì da Acri, la terra delle arance, con la sua famiglia), scrive “Uomini sotto il sole” nel 1963. A 55 anni di distanza la storia dei tre uomini racconta le storie degli ultimi del nuovo millennio, delle migliaia di migranti e rifugiati che abbandonano le proprie terre per un destino che immaginano, bramano, migliore. Identico il percorso nel caldo asfissiante nel deserto, nella sete e la fame. Identica la spinta, la disillusione per un passato di sconfitte e la speranza di un futuro dignitoso.
Kanafani, con uno stile commovente ma allo stesso tempo concreto, plastico, dà loro un nome e una storia, gli riconosce paure e sogni. Non li lascia anonimi a morire in un camion cisterna. La Palestina c’è ma è sfocata, solo un’ombra: è questa una delle prime opere dello scrittore in cui il popolo palestinese viene elevato, supera i confini e diventa parte integrante dell’umanità.
Con “Uomini sotto il sole”, Kanafani fa quello che prima di lui nessuno aveva ancora fatto: inserisce la questione palestinese all’interno della questione umana, proietta il popolo palestinese e ogni suo membro nella dimensione globale, propria dell’uomo in quanto tale. La sua narrativa è già esplosiva, sebbene all’epoca avesse solo 27 anni (morirà nove anni dopo, nella sua auto trasformata in bomba a orologeria dal Mossad israeliano).
Ed è un passo fondamentale verso la sua successiva produzione – più direttamente politica – ma anche verso la definizione della visione del nascente movimento di liberazione palestinese. Da marxista, Kanafani entrerà a far parte del Fronte Popolare e sarà la sua penna a definirne lo spazio d’azione: il movimento che nascerà in quegli anni “supererà” la Nakba per porsi come obiettivo, come spiega lo storico palestinese Wasim Dahmash, la liberazione del palestinese del futuro. Quello del passato (Abu Qais, Asad, Marwan) è già morto.
È il monito finale del più genuino intellettuale della resistenza: la questione palestinese si risolverà collettivamente, come collettiva è la sua dimensione umana. I tre uomini scompaiono mentre fuggono lontano da una vita di miseria, verso un lavoro che sostituisca il vuoto, l’assenza della propria terra e l’offuscamento della loro identità. Ma fuggono da soli.