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Il cambiamento non arriva solo dai tribunali

18/04/2020 DI INVICTA PALESTINA
Sahar Francis, direttrice di Addameer, parla della pervasività dell’incarcerazione nella società palestinese, di come lei e la sua organizzazione siano state prese di mira dalle forze israeliane per il loro lavoro e cosa significhi se la comunità internazionale esclude Israele dalle responsabilità dell’occupazione.

Copertina: Sahar Francis, direttrice di Addameer negli uffici dell’organizzazione a Ramallah, in Cisgiordania, il 19 febbraio 2019. (Foto: Mohannad Darabee per +972 Magazine)
Di Henriette Chacar – 21 Febbraio 2019
C’è un caso legale che Sahar Francis dice non dimenticherà mai. Era il 1996 o il 1997 e solo di recente aveva iniziato a lavorare ad Addammeer, la principale organizzazione palestinese che forniva supporto legale ai prigionieri politici. I soldati israeliani avevano arrestato una giovane donna palestinese, ricorda Francis, e la stavano torturando per farla testimoniare contro suo fratello che era anch’esso in carcere. Stava rappresentando entrambi i fratelli.
Dopo due mesi di detenzione presso la struttura di interrogatorio israeliana “Russian Compound” a Gerusalemme, la giovane donna doveva essere ascoltata in un tribunale militare israeliano vicino a Hebron. Quel giorno, tuttavia, la strada fu completamente bloccata da un incendio di pneumatici. L’autista non voleva continuare, ricorda Francis, ma dice che lei si è rifiutata di scendere dal taxi e ha insistito perché trovasse un modo per portarla al tribunale militare.
“Dovevo assicurarmi che tornasse a casa con me”, spiega Francis, seduta dietro la sua scrivania negli uffici Addameer a Ramallah. Per come la vedeva Francis, questa donna era vittima di una grande ingiustizia ed era determinata a vederla liberata, cosa che fece. “Per me, questo era il mio momento di raccogliere la sfida. Altrimenti, che senso ha?”
Israele ha arrestato e detenuto più di 800.000 palestinesi da quando ha occupato la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est nel 1967. Nel solo 2018, l’esercito israeliano ha arrestato almeno 6.500 palestinesi, di cui 1.080 erano bambini. È questa pervasività dell’incarcerazione che rende il problema dei prigionieri così centrale nella società palestinese. “Tocca ogni casa palestinese”, afferma Francis.
La percezione generale in Israele e in tutto il mondo è che i prigionieri palestinesi sono coloro che hanno compiuto attacchi violenti, forse lanciato pietre o lanciato bombe molotov contro soldati israeliani, pugnalato ufficiali ai posti di blocco o investito israeliani con l’auto. Nella realtà, anche una poesia di un qualsiasi poeta potrebbe essere interpretata come istigazione al terrorismo.
“Se guardiamo alla politica degli arresti, dalla Prima Intifada fino ad oggi, tutti i livelli della società palestinese sono stati sistematicamente presi di mira”, afferma Francis. “Ti basta condividere una foto di uno shahid (martire) sulla tua pagina Facebook personale per giustificare il tuo arresto per un anno, un anno e mezzo, anche due anni, sulla base della accusa per istigazione.”
Nel corso degli anni, per il fatto che Addameer difende e sostiene i prigionieri palestinesi, lo ha reso un bersaglio, sia da organizzazioni pro-israeliane di destra come l’ONG Monitor, sia dal regime israeliano e dalle sue forze armate. Le forze israeliane hanno fatto irruzione negli uffici di Addameer nel 1998, 2002 e 2012, distruggendo attrezzature, frugando nei documenti e arrestando i suoi dipendenti.
Fu dopo le incursioni del 1998 che Addameer, che era stata fondata nel 1992 a Gerusalemme ed era stata registrata come organizzazione in Israele, trasferì le sue operazioni a Ramallah.
Anche le organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani si sono trovate sotto attacco politico negli ultimi dieci anni, ma lo stesso ambiente ostile ha conseguenze molto diverse per i palestinesi sotto occupazione. La metà del personale di Addameer non può viaggiare fuori dalla Cisgiordania, spiega Francis. Il loro movimento è limitato dall’infrastruttura fisica e burocratica dell’occupazione che determina le aree attraverso le quali sono autorizzati a spostarsi, li obbliga a richiedere i permessi di viaggio e li sottopone ad ore di attesa per attraversare i posti di blocco.
Gli attivisti dei gruppi palestinesi per i diritti umani hanno anche maggiori probabilità di subire arresti rispetto ai sostenitori israeliani o internazionali dei diritti umani, osserva. Tali arresti comportano spesso lunghi periodi di detenzione amministrativa, detenzione senza accusa o processo. Khalida Jarrar, ex direttrice di Addameer e eletta nel parlamentare palestinese, è stata incarcerata da Israele senza processo per più di due anni (ndt è ancora in carcere) . Il coordinatore legale di Addameer, Ayman Nasser, è stato arrestato da Israele lo scorso settembre.
Nel 2002, anche Francis è stata accusata dalle autorità israeliane di aiutare un prigioniero a nascondere informazioni e ha dovuto affrontare una pena detentiva di sei anni. Per gli avvocati che difendono i prigionieri politici palestinesi, “la riservatezza è un’assurdità”, dice, che ogni loro mossa e dichiarazione è controllata dalle autorità israeliane. Per quanto la riguarda, le autorità israeliane l’hanno accusata non perché sospettassero veramente fosse colpevole di un crimine, ma per sabotare il suo lavoro: durante il processo, le è stato impedito di visitare i prigionieri.
Alla fine Francis è stata assolta, ma la sua persecuzione ha sottolineato il valore dell’importante supporto che lei e altri avvocati forniscono ai prigionieri: “rafforzare la fermezza della persona di fronte all’umiliazione. Non solo fermezza nel senso di confessare o no, ma nel prevenire il collasso della mente e dell’anima di una persona”. Israele nega sistematicamente ai prigionieri palestinesi le visite dei loro familiari; impedendogli di vedere anche i loro avvocati, nel tentativo di “spezzarli”.
Essere un collegamento tra il prigioniero e il mondo esterno, avere normali conversazioni e sollevare il morale dei prigionieri, secondo Francis, può essere importante quanto il lavoro legale. Ricorda di aver fatto visita a un prigioniero del Russian Compound a cui non era stato permesso di cambiarsi per 60 giorni. “Aveva davvero un odore terribile. Era imbarazzato di dover condividere la cella dei visitatori con me, che è a malapena un metro per un metro”, dice.
“Questo è il modo in cui ci si impegna nella piena umiliazione dei detenuti. Questa è la tortura mentale e psicologica ad opera delle forze israeliane”.
Nata a Fasuta, un piccolo villaggio della Galilea, Francis afferma che il suo interesse per i diritti umani è stato alimentato dalla lettura di libri sul movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e sull’apartheid in Sudafrica.
Dopo aver studiato legge all’Università di Haifa, ha iniziato a lavorare presso l’ufficio di Betlemme della Society of St. Yves, un’organizzazione per i diritti umani con sede a Gerusalemme. Solo un paio d’anni dopo, nel 1996, conobbe da vicino gli arresti arbitrari e politici, quando Israele arrestò i suoi amici e colleghi in seguito alle proteste contro un nuovo tunnel sul muro occidentale di Gerusalemme.
Nel 2012, quando divenne direttrice di Addameer, Francis si trasferì a Ramallah. Il suo stesso movimento attraverso Israele-Palestina nel corso del tempo, da Fasuta, a Haifa, a Betlemme e Gerusalemme, poi a Ramallah, può essere visto come una rara sfida dell’occupazione. Vivendo e lavorando tra diverse comunità palestinesi separate, sfida le divisioni fisiche e politiche che Israele usa per controllare i palestinesi.
“Come persona che non ha vissuto gli eventi del 1948, la mia conoscenza dei dettagli dell’occupazione, delle violazioni e dei crimini sistematici commessi dall’occupazione, non era molto chiara”, afferma Francis, riferendosi all’area all’interno della linea verde. “Ad un certo punto, ho sentito che forse le circostanze a cui siamo stati esposti nel 1948 dovrebbero essere trasmesse alle persone delle nostre comunità che non le hanno vissute”.
I diritti umani e il sistema legale in generale, secondo lei, sono limitati in assenza di volontà politica. “Il cambiamento non proviene dai soli tribunali o dai corridoi della giustizia”, ​​osserva. Non c’è modo di far valere i diritti umani senza una decisione politica di sostenerlo, aggiunge, e un caso che dimostra come la politica può colmare quel vuoto è la pressione esercitata sia dai prigionieri in detenzione amministrativa, in sciopero della fame, che dai detenuti comuni.
Uno dei successi di cui Francis è più orgogliosa è stato sostenere Khader Adnan durante il suo sciopero della fame del 2012. L’esercito israeliano ha arrestato Adnan nelle prime ore del mattino del 17 dicembre 2011 e ha iniziato uno sciopero della fame quasi immediatamente per protestare contro le sue condizioni e il fatto che non era stato accusato di alcun crimine.
Addamer lo ha assistito nel suo processo, che ha ottenuto un’insolita copertura mediatica globale, in particolare per lo sciopero della fame che gli ha causato problemi di salute. Alla fine, i paesi europei e altri stati iniziarono a esercitare pressioni su Israele (solo “nel suo 60° giorno di sciopero, e in pericolo di vita”, aggiunge), e Adnan fu rilasciato. “Questo ci ha dato una impulso per andare avanti”, dice.
Ma nonostante alcuni casi in cui i paesi stranieri hanno usato la propria influenza, Francis è scettica sulla capacità della comunità internazionale di difendere i diritti dei palestinesi. “C’è un evidente doppio standard”, osserva. Invece, la sua speranza è quella di un cambiamento radicale. Il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) ha fatto sentire alle persone che il cambiamento è possibile, dice, e che “le piccole azioni contro le aziende che sono complici dell’occupazione, o contro le istituzioni e le università che ne traggono profitto, stanno portando dei risultati”.
Nel 2014, Addameer ha unito le forze con numerose organizzazioni per promuovere una campagna internazionale contro G4S, una compagnia di sicurezza che forniva personale alle prigioni israeliane nei territori occupati e forniva tecnologie di sorveglianza destinate ai prigionieri politici palestinesi. Il G4S, si è scoperto, gestiva anche centri di detenzione per immigrati in Gran Bretagna e prigioni in Sudafrica che praticavano la tortura. La società ha anche utilizzato tecnologie di sorveglianza simili lungo il confine tra Stati Uniti e Messico.
Questa sinergia di lotta ha mobilitato persone orientate alla giustizia ma che non avrebbero necessariamente preso posizione solo sui diritti dei palestinesi. “Siamo diventati una forza di oltre 160 organizzazioni in tutto il mondo. Nel giro di due anni ci siamo riusciti e G4S ha annunciato che si sarebbe ritirato dai contratti con prigioni israeliane, insediamenti e posti di blocco. Questo è un chiaro esempio di come, quando provi a unire le energie con altre lotte, ne esci rafforzato”.
“Il movimento di resistenza palestinese ha sempre cercato connessioni con altre lotte popolari. Oggi, queste connessioni sono di nuovo la fonte della solidarietà e dell’impegno”, afferma Francis. “Che i giovani palestinesi che non erano nemmeno nati durante la Prima Intifada comprendano l’importanza di collegare le detenzioni in Palestina con arresti politici negli Stati Uniti, in America Latina, Turchia, Spagna e altri luoghi, è uno sviluppo positivo”.
Parallelamente al punto di partenza, tuttavia, il traguardo successivo, osserva Francis, è cercare di rendere Israele responsabile dei presunti crimini di guerra, “per raggiungere un punto in cui vi sia una vera indagine sui crimini che l’occupazione ha commesso in tutti questi anni, e che ci sia un risarcimento per questo.” Per risarcimento, si intende sia quello materiale che simbolico; Israele dovrebbe risarcire i palestinesi, riconoscere i suoi crimini risalenti alla Nakba e i loro complici dovrebbero essere imprigionati.
“La Palestina è il banco di prova del diritto internazionale, per quanto mi riguarda. Se la Palestina non viene trattata a quel livello, allora la comunità internazionale dovrebbe semplicemente ammettere la sua incapacità di proteggere i diritti umani”, afferma Francis.
Henriette Chacar è una giornalista palestinese presso +972 Magazine. Inoltre produce, ospita e gestisce il Podcast +972. Laureata alla Columbia Journalism School, Henriette aveva già lavorato in un settimanale del Maine, Rain Media per PBS Frontline e The Intercept.
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org