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No, non esistono tecnologie di controllo “etiche”

Gruppo Ippolita 20/04/2020
A Milano siamo in lutto. È morta una generazione e ci hanno vietato di riunirci per ricordarla, l’abbiamo fatto in segreto, nascondendo con rabbia le lacrime, fingendo di andare al supermercato. Per giorni il trauma della morte ci ha annichiliti, come una tempesta di cui non si veda la fine.

L’inverno è passato portando via la generazione che ha fatto la storia di Milano degli anni ‘60, la città operaia del boom economico, storia di migranti dal sud Italia e di migranti lombardi dalle campagne verso la grande città. Matrimoni misti tra dialetti incomprensibili all’ombra del Partito Comunista, ma con un piede nei cabaret anarchici (togliete le bandiere italiane e smettetela con Mameli, ricordatevi chi siete).
Ma i lutti causati dall’epidemia passeranno comunque inosservati, non si innescherà nessun cambiamento significativo. Con buona pace di chi si sta rallegrando per l’acqua dei mari nuovamente cristallina e l’aria che torna ad essere respirabile, nel post emergenza ci sarà un’accelerazione della grande industria per tornare a regime, in un contesto di crisi economica che giustificherà ecocidio, indebitamento e deregolamentazione.
Le nostre migliaia di morti valgono moltissimo quando rappresentano la credibilità politica dello Stato, ma non valgono niente quando l’industria deve ripartire per garantire il profitto dei soliti pochi. I morti non sono tutti uguali.
Veniamo dunque alla tecnologia digitale e diciamolo subito: non esistono tecnologie di controllo che siano anche «etiche». L’etica si sviluppa nella relazione e si radica nell’esperienza, non è qualcosa che si può embeddare nel codice (no, il free software non garantisce la neutralità della tecnica). Il controllo invasivo non è mai etico. E se è su base volontaria chiamatela servitù volontaria, non approccio etico. I dati di cui sembriamo avere disperatamente bisogno per sconfiggere il virus esistono già. Sono di proprietà delle piattaforme che ci forniscono tutti i servizi gratuiti di cui non possiamo più fare a meno.
Da tempo infatti, violando ogni norma politica e senza restituire nulla della ricchezza accumulata, le big tech sono nella posizione privilegiata per incrociare dati biometrici, sociali e geografici. Sarebbe davvero semplice per la potenza di calcolo di cui dispongono de-anonimizzare la rete di contatti di ogni singolo cittadino trovato sospetto di Covid. Questi dati non diventeranno mai un bene pubblico.
Ma poi, perché dovremmo anelare a questa magnitudo brutale e priva di razionalità? Cosa ci garantisce di essere migliori di loro? Cosa ci garantisce che lo sia lo Stato?
Il futuro – perlomeno da questa parte del pianeta – prevede una liberalizzazione, non certo una statalizzazione. Da anni e in molti stanno lavorando sulla portabilità dei dati. L’escamotage è quello della restituzione della proprietà privata dei dati.
La data portability così pensata atomizzerà ogni singolo utente privandolo di rapporti di forza, lasciandolo in balia del mercato. Ogni utente sarà quindi «libero» di vendere i propri dati senza alcuna capacità critica né cultura informatica.
L’emergenza rileva quello che è già chiaro da anni: le multinazionali dell’IT si occupano della governance dei cittadini, non di comunicazione. Quindi, o lo Stato sceglie di caratterizzare il proprio agire in modo radicalmente diverso – rendendo questa diversità un valore politico da contrapporre al totalitarismo tecnologico – oppure è destinato a farsi soppiantare da Google e simili, cosa che, se guardiamo alla scuola pubblica, e ai software usati per le call e lo smartworking sembra già a uno stadio avanzato.
Lungi da far aderire la sovranità tecnologica ad un’architettura digitale di Stato (altra deriva totalitaria), la mancanza di lungimiranza ha permesso l’ennesima infiltrazione dell’IT nel nostro quotidiano. Il privato che si divora il comune, mentre sulla cittadinanza si riversa la retorica del «presidiare la legalità» e con il consenso degli esperti/tecnici si applicano misure autoritarie. E veniamo infine alla privacy, questa sconosciuta.
Oggetto misterioso di cui ci si ricorda l’esistenza solo quando ci viene portata via. Nella testa della maggior parte delle persone il concetto di privacy ha a che fare con la libertà fino a diventarne quasi un sinonimo.
Ormai tutti sono pronti a difendere la privacy: dal PD agli hacker, dalla UE agli innovatori. Ma la privacy da sola non assicura la libertà. Certo è importantissima: la Cina con i social credit ci mostra il nostro futuro gamificato, irregimentato dentro una performance continua, in cui dobbiamo provare di essere bravi cittadini come in un gioco che non finisce mai. Il controllo da commerciale si fa di Stato, cioè torna a essere di Stato, ma in forma potenziata.
Sembra essere questa la prospettiva per chi inneggia alla sovranità digitale. Ma alla sovranità digitale preferiamo l’autonomia (digitale) e al controllo – statale o commerciale che sia – l’auto-governo, anche in tempi di quarantena. Perché gli individui, i gruppi di affinità, le comunità che non possono contare sui privilegi borghesi, da sempre fondano le proprie libertà condivise su nient’altro che questo. Chiudiamo rivolgendo un pensiero a chi vive in Lombardia, una regione obbediente, con la più alta percentuale di decessi in Europa.