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Il coronavirus ha ucciso il neoliberismo. Lo sa anche Trump

Shlomo Avineri 30/03/2020
Alcune conclusioni sulla pandemia da coronavirus atte a delineare modi per gestire la crisi e preparare la successiva ripresa.

Tradotto da Leopoldo Salmaso
Al punto in cui siamo, è ovvio che non c’è modo di valutare le implicazioni del coronavirus sulla politica, sull’economia e sulla società, né a livello globale né nazionale. Però, mentre la pandemia sta ancora imperversando, possiamo già trarre alcune conclusioni per delineare i modi più idonei a gestire la crisi e a consentire una ripresa in seguito.
L’implicazione principale è il collasso del modello conservatore neoliberista, così com’era concepito da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Questo modello ha cercato di limitare il più possibile il ruolo dello stato, per contro ampliando il potere del libero mercato. Lo stato, si affermava, impedisce il potenziale di crescita delle forze creative del mercato, quindi l’autorità statale dovrebbe essere decurtata, lasciando che le forze di mercato operino senza ostacoli.
Reagan lo espresse radicalmente dicendo che lo stato non è la soluzione, è il problema. Benjamin Netanyahu1 si associò usando una metafora più grossolana: egli descriveva il settore pubblico come un uomo grasso che vive sulle spalle di uno magro, il settore privato.
Sullo sfondo di questa ideologia neoconservatrice, fu attuata una politica radicale, fu smantellato lo stato sociale che era stato istituito nelle democrazie occidentali.
Ciò ha comportato un’ampia privatizzazione dei servizi pubblici, sanità e istruzione comprese, una contrazione della rete di sicurezza per gli svantaggiati, una revoca della regolamentazione di banche e borse, il tutto per consentire alle forze di mercato di operare liberamente. Tutto si basava sul presupposto ideologico che la libera concorrenza, sebbene provochi crisi occasionali, nel lungo termine sia in grado di fornire equilibrio e stabilità a beneficio di tutti.
Questa ideologia neoconservatrice ignorava il contesto storico che portò alla creazione dello stato sociale dopo la seconda guerra mondiale. Lo stato sociale, nel modo in cui si sviluppò principalmente in Gran Bretagna e negli USA, e in seguito fu abbracciato da tutti i paesi democratici, derivava da una convergenza fra il potere del lavoro organizzato (che andava crescendo in seguito all’espansione delle concessioni governative), e la razionale comprensione che l’economia di mercato sfrenata degli anni ’20 e ’30 aveva portato alla depressione del 1929, con le sue conseguenze politiche: crescita dei partiti comunisti in Occidente e adesione di vaste fascie di popolazione al fascismo e al nazismo. Quella comprensione trovò espressione, ad esempio, nelle teorie dell’economista britannico John Maynard Keynes e nel New Deal del presidente Franklin D. Roosevelt. 
Lo stato sociale – la “terza via” che si trova tra capitalismo senza restrizioni e socialismo controllato dallo stato – emerse da una singolare fusione fra pensiero sociale responsabile e considerazioni di realpolitik, che cercarono di prevenire il ritorno alle condizioni che avevano distrutto la democrazia in paesi come l’Italia e la Germania, e minacciavano di distruggerla altrove.
Le politiche dello stato sociale hanno avuto successo nella maggior parte del mondo occidentale. Tuttavia, i critici neoconservatori avevano ragione nel notare alcuni difetti in questo modello: eccessiva dipendenza dalle burocrazie statali in continua espansione e nazionalizzazione di istituzioni che avrebbero potuto essere più efficienti in un contesto di concorrenza e iniziativa privata. Tutto ciò era vero, ma si gettò il bambino con l’acqua sporca nel tentativo di tornare al capitalismo sfrenato del 19° secolo, quello criticato da Karl Marx e da altri pensatori socialisti.
La globalizzazione, che è un corollario del modello neoconservatore, ha avuto risultati positivi contribuendo al benessere di molti strati sociali, ma ha anche danneggiato molti lavoratori dell’industria nella classe media, consentendo l’ascesa di movimenti populisti in molti paesi.
Un’altra depressione?
La crisi del coronavirus2 dimostra che, quando le cose vanno male, le forze del mercato sono le prime a crollare, incapaci di offrire soluzioni. In definitiva, in tempi di crisi, tutti guardano allo stato.
Perfino un presidente radicale come Donald Trump3, che ha fatto di tutto per indebolire lo stato, ha capito che senza un massiccio intervento del governo il mercato -con la borsa come indicatore- continuerà a crollare. Anche lui ha concluso che il potere dello stato, il governo federale, deve essere mobilitato per salvare l’economia e prevenire la disoccupazione di massa. Un’economia in collasso e una disoccupazione diffusa potrebbero non solo distruggere le sue possibilità di essere rieletto, ma anche spingere gli USA in una crisi pari alla Grande Depressione.
Il primo ministro britannico Boris Johnson, che pensava che il coronavirus si sarebbe comportato come le azioni in borsa, è stato costretto a imporre restrizioni draconiane alla popolazione del Regno Unito e a garantire una rendita minima per tutti. Persino Netanyahu ha capito che il governo è l’unica rete di sicurezza per prevenire una crisi senza precedenti. Perfino lui, per la prima volta, ha usato il termine “responsabilità reciproca”, anche se non ha detto “solidarietà”, che comporta un vago odore di socialismo, Dio non voglia!
È cosa buona che sia tornato alla realtà – in cui l’unità e la solidarietà sono forse ancora più importanti che vantarsi di “trovate” ad alta tecnologia che arricchiscono solo alcuni. Il prossimo governo, qualunque sia la sua composizione, dovrà capire che senza un forte sostegno statale l’economia non sarà in grado di rimettersi in sesto. Dovrà rendersi conto che è necessario un massiccio sostegno del governo per soddisfare le masse dei disoccupati, e che il sistema sanitario non può essere lasciato ai capricci del libero mercato dopo essere stato trascurato criminalmente negli anni in cui non avevamo neppure un ministro della sanità a tempo pieno.
Il sostegno del governo ai produttori locali, specialmente in agricoltura, deve essere priorità assoluta per garantire un approvvigionamento costante di cibo, liberando Israele dalla dipendenza dalle importazioni che potrebbero essere colpite per la sospensione del trasporto aereo, come sta accadendo ora. Un settore pubblico completo e funzionale, con autorevolezza e di grande impatto, è un bisogno esistenziale, molto più di una borsa valori prospera e dei magnati.
Ma la necessità di rafforzare lo stato comporta rischi. I regimi autoritari e totalitari a sinistra e a destra sono sempre sorti in tempi di crisi e di emergenza, quando la necessità di una leadership forte fu usata come pretesto per distruggere la democrazia. Lenin e i suoi compagni sfruttarono la terribile crisi in Russia4 alla fine della prima guerra mondiale per sciogliere la prima Assemblea costituente elettiva nella storia russa. I bolscevichi non riuscirono a raggiungere la maggioranza alle elezioni, ma presero il controllo di un paese diviso e litigioso.
Mussolini salì al potere dopo che l’economia italiana era affondata in seguito alla presa del controlo di parte dell’industria e delle strade da parte di gruppi rivoluzionari. Hitler salì al potere quando milioni di disoccupati sconvolsero ciò che restava della stabilità sociale ed economica in Germania, con il parlamento impantanato nei tentativi di formare un governo dopo ripetute elezioni.
Noi stessi abbiamo visto come Vladimir Putin5 ha usato il caos che fece seguito al crollo del regime comunista per formare un regime neozarista in Russia. Un momento di emergenza è sempre un’occasione perché elementi autoritari che esistono ai margini di ogni società si presentino come salvatori della nazione e del mondo intero.
Alla luce di questi pericoli, due cose sono fondamentali con riguardo al ruolo critico dello stato: non solo evitare concentrazioni di potere garantendo l’indipendenza del potere legislativo e della magistratura, ma anche conservare una forte società civile.
Perché sussista una democrazia è necessario l’equilibrio di potere tra lo stato e una società civile solida. Lo annotò Alexis de Tocqueville circa 200 anni fa in “Democracy in America”. Egli affermò che la libertà negli USA è mantenuta non solo grazie alla Costituzione, ma anche per la forza della società civile: quel mosaico variegato di organizzazioni di volontariato, di gruppi sociali ed economici autonomi basati sulla volontà dei cittadini di formarli e di mantenerli in vita.
I kibbutz e altro ancora
Israele ha avuto il massimo successo nel mantenere questo equilibrio, in circostanze difficili derivanti da problemi di sicurezza e da immigrazione massiccia. Questo in parte è dovuto al fatto che, ancor prima che fosse istituito lo stato, la comunità ebraica sotto il mandato britannico (lo Yishuv) era costituita da organizzazioni spontanee, proprio come negli USA la tradizione di autogoverno dei coloni britannici precedette l’indipendenza e l’istituzione di un governo federale. In Israele, la molteplicità di partiti, sindacati, kibbutz, moshav (cooperative agricole – NdT), istituzioni municipali elette -tutti elementi pluralistici- è stata il fondamento della democrazia israeliana, anche senza una costituzione scritta.
In effetti, ci fu un solo tentativo in Israele di promuovere la supremazia dello stato sulle istituzioni volontarie della società. Dopo le complicazioni che seguirono all’affare Lavon -un’operazione fallita in Egitto sotto falsa bandiera- David Ben-Gurion promosse lo stato come valore supremo.
Il ruolo dello stato ha sempre fatto parte dell’ethos sionista, anche se non sempre come valore più alto. Ben-Gurion tentò di ridurre il potere della federazione sindacale Histadrut e di prevenire le critiche interne al suo stesso partito; inoltre, gettò calunnie sulla libertà di stampa e sul mondo accademico.
Come giovane docente nei primi anni ’60, mi unii al gruppo pro-Lavon Min Hayesod, composto da membri e sostenitori del partito Mapai di Ben-Gurion che si opponevano alla mossa del capo. Non fu facile per molti membri del Mapai esprimersi contro il riverito padre della nazione e leader del proprio partito. Il tentativo di Ben-Gurion fallì e il complicato equilibrio tra stato e società fu grossomodo mantenuto in Israele, nonostante la preponderanza delle questioni di sicurezza e di difesa che in altri paesi avrebbero sconvolto tale equilibrio.
In questi giorni c’è la tentazione – in parte genuina e in parte strumentale – di sfruttare le difficoltà attuali per chiedere una leadership forte e un governo di emergenza nazionale. Il paradosso è che, insieme alla necessità di un governo forte e stabile, esiste la necessità di rafforzare la società civile e le sue istituzioni: organizzazioni di volontariato, partiti, media indipendenti. È anche necessaria un’opposizione parlamentare funzionale e responsabile. Ovviamente, non si può lasciare l’opposizione in mano a elementi estremisti di destra o di sinistra, e questa è una sfida difficile.
Note