Cile, Ecuador, Haiti, Bolivia … fine di quale ciclo?
Daniela Trollio 19/11/2019 |
Non sappiamo come proseguiranno le lotte. Riusciranno a esprimere una avanguardia che consolidi la spontaneità e dia continuità a queste battaglie per un mondo diverso, che noi chiamiamo ancora socialismo?
Nel 1992 il politologo Francis Fukuyama scriveva il saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”, basato su una sua lezione tenuta presso la facoltà di Filosofia politica dell’Università di Chicago. La sua tesi: la storia come lotta delle ideologie era finita, con un mondo ormai basato sulla “democrazia liberale” che si era imposta dopo la fine della Guerra Fredda. In altri termini, un mondo basato sulla “pax americana”.
Il concetto fu ripreso da molti analisti dopo le sconfitte dei governi progressisti dell’America Latina, dall’Argentina all’Ecuador al Brasile (tra il 2014 e il 2018), che davano ormai per morto il “ciclo progressista”, sepolto dal “neoliberismo” che l’economista Joseph Stiglitz chiamava “fondamentalismo del mercato” e, molto più chiaramente, il professore di Economia statunitense David M. Kotz definiva “la dominazione completa del lavoro da parte del capitale”.
Così questi analisti, politologi, “esperti” del nulla saranno certo rimasti molto delusi da questo ottobre 2019, che non è certo l’Ottobre bolscevico di 102 anni fa, ma che ricorda ai potenti del mondo che la lotta di classe non è affatto finita, che i popoli del Sud del mondo con il proletariato in prima fila (e anche quelli della dormiente Europa come i gilet gialli francesi) ci dimostrano ancora una volta che è possibile ribellarsi e anche vincere.
Dalla piccola e martoriata Haiti all’Ecuador, al Cile, all’Argentina, alla Bolivia, all’Uruguay e persino al Brasile, questi ultimi mesi hanno visto masse di giovani, di lavoratori, di donne ribellarsi contro l’imperialismo, contro i suoi strumenti come quell’organizzazione criminale chiamata Fondo Monetario Internazionale e contro i suoi rappresentanti locali, i governi che ne hanno applicato spietatamente le politiche. Con strumenti diversi: le piazze e le elezioni. Certo gli esiti non sono scontati, perché si tratta di processi tuttora in corso mentre scriviamo, ma i segnali sono forti.
Una vetrina rotta: il Cile
Nel laboratorio per eccellenza del neoliberismo dei Chicago Boys, il paese che per trent’anni è stato venduto come “vetrina” dello sviluppo capitalista, scopriamo che, come scrivevano sui cartelli nelle manifestazioni di questi giorni, “Non sono 30 pesos – l’aumento delle tariffe dei trasporti, la scintilla che ha incendiato la prateria, che il Senato ha già abrogato nel tentativo di calmare la protesta – sono 30 anni”.
Ecco qualche numero: un lavoratore cileno su 4 guadagna 301 mila pesos, che equivalgono a 400 dollari al mese e lavora in media più delle 45 ore settimanali legali. La prestigiosa e autonoma Fundaciòn Sol rileva che il 70% della popolazione guadagna meno di 550 mila pesos. L’80% delle famiglie cilene sono super indebitate. Si indebitano per la vita per studiare, per curarsi, per procurarsi una pensione miserabile, perché tutti i servizi – sanità compresa – sono stati privatizzati. L’arcivescovo di Conceptiòn radiografa così la situazione del paese: “In Cile circa 650.000 giovani (il 5,7% sul 13,1% totale di quell’età, su una popolazione totale di 18.700.000 persone, n.d.a.) , tra i 18 e i 29 anni, non studiano né lavorano; ci sono alti tassi di infermità mentale e di suicidi tra loro; migliaia di anziani sono soli e abbandonati e nessuno si preoccupa di loro… La violenza e la solitudine in Cile sono una pandemia”.
Il prezzo dei trasporti incide per circa il 15% sul salario. Le AFP (Amministratrici dei Fondi Pensione, società private) sono un altro furto legalizzato imposto dallo Stato, cui per legge i lavoratori debbono destinare il 10% del salario. Il denaro raccolto è il doppio di quanto viene poi restituito alla voce “pensioni” e rappresenta l’80% del PIL del Cile. Il meccanismo nacque all’epoca della dittatura di Pinochet e venne riconfermato da tutti i governi “democratici” che si sono susseguiti.
I lavoratori e i proletari cileni, che fino al giorno prima venivano descritti come “soddisfatti consumatori”, si sono svegliati e si sono accorti che il loro paese non è per niente una bella “vetrina”. Così è molto più chiaro perché un “semplice” aumento del biglietto del metro ha fatto scoppiare la rivolta, dapprima tra i giovani studenti e poi tra la maggioranza della popolazione: 1 milione di persone nelle strade il giorno dello sciopero generale, la più grande manifestazione di protesta degli ultimi 30 anni.
Senza parlare del saccheggio dei beni del paese da parte delle multinazionali, iniziato durante la dittatura e continuato allegramente dai governi susseguitisi. Il popolo cileno è stato spogliato di tutto: mari, boschi, miniere, risorse naturali e, come dicevamo prima, salute, educazione, acqua, gas ecc. E il 18 ottobre, infatti, a Santiago viene assaltato e bruciato l’edificio dell’ENEL (oh, sorpresa, i capitalisti italiani sono anche là) che controlla la distribuzione dell’elettricità e anche quello di Santa Rosa.
Che la dittatura di Pinochet non sia solo un ricordo ma una realtà ancora attuale lo dicono anche altri numeri: in circa 15 giorni di ribellione, 20 morti, migliaia di feriti e più di mille arrestati, altri “desaparecidos”, denunce di torture e abusi sui prigionieri; esercito e polizia nelle strade, carri armati, cannoni ad acqua e gas urticanti ecc. ecc. Questo hanno affrontato le migliaia di manifestanti che non erano ancora nati quando fu scritta la Costituzione pinochetista, mai abrogata né dai governi di “centro sinistra” della Concertaciòn né da quelli della destra. Curioso che l’ex presidentessa Michelle Bachelet, così attenta a criticare le presunte “violazioni dei diritti umani” in Venezuela, sia riuscita a dire solo – di quello che succede nel suo paese – che è “addolorata”.
Lasciamo per ora il Cile, dove la ribellione non si ferma, per fare qualche considerazione su altri paesi.
Ecuador in fiamme
Applicando le ricette del Fondo Monetario Internazionale, il presidente Lenìn Moreno patteggia un prestito milionario tra le cui condizioni c’è l’annullamento dei sussidi ai prezzi del carburante (circa 1.300 milioni di dollari l’anno). Immediata la rivolta: il 3 ottobre cominciano i trasportatori, e poi gli studenti, i docenti, i contadini, i lavoratori. Le loro organizzazioni, la CONAIE (Coordinamento delle Nazionalità Indigene), il Fronte Unitario dei Lavoratori, i sindacati della scuola portano in piazza migliaia e migliaia di persone che si riversano nelle strade e accerchiano Carondelet, il palazzo sede del governo e l’edificio dell’Assemblea Nazionale. E occupano anche la sede del FMI a Quito, dove sanno che risiede il “governo reale” che manovra la marionetta Morena. A loro si uniscono, per la prima volta, anche le comunità indigene dell’Amazzonia, minacciate nella loro stessa sopravvivenza dalle multinazionali petrolifere.
Tutto il paese è mobilitato, con circa 300 interruzioni delle strade principali dell’Ecuador; vengono sequestrati circa 500 poliziotti nel nord del paese, il presidente è costretto a spostare il governo a Guayaquil dopo aver decretato il coprifuoco. Dopo 11 giorni di proteste con 7 morti, più di 1.400 feriti, 1.200 arresti e un centinaio di desaparecidos, il governo accetta di abrogare il decreto 883 sui combustibili. Ma il “pacchetto” del FMI prevede altre misure, di cui non si parla. Una “vittoria” parziale che, se mostra la forza di un movimento popolare, mostra anche la debolezza delle sue organizzazioni. La tattica del governo per sgonfiare la protesta popolare è stata riconoscere come interlocutore legittimo solo la CONAIE, scaricando la responsabilità delle “violenze” sui dirigenti della Rivoluciòn Ciudadana, l’organizzazione che raggruppa i seguaci dell’ex presidente Rafael Correa.
La partita non è comunque chiusa, perché le altre misure del FMI – che comprendono la deregulation e precarizzazione dei diritti dei lavoratori, il rialzo dell’età pensionistica, tagli all’educazione ecc. – restano, a quanto pare, in vigore. Così come restano gli scandalosi regali alle banche e alle grandi imprese, con il condono di circa 4.290 milioni di dollari di tasse, e per i lavoratori l’obiettivo di “ridurre la massa salariale, per cui i contratti occasionali verranno rinnovati con un abbassamento del 20% e le loro ferie passeranno da 30 a 15 giorni”. Non siamo veggenti, non sappiamo come proseguirà la lotta; quello che si può certamente dire è che il protagonismo delle masse popolari ecuadoriane dovrà, prima o poi, fare i conti con coloro che le rappresentano oggi.
Haiti, basta con la corruzione
Anche la piccola isola caraibica vede da cinque settimane scioperi, blocchi delle principali vie di comunicazione, mobilitazioni di piazza che hanno paralizzato tutte le attività economiche. La ragione è la richiesta che il presidente Moise e tutto il suo governo se ne vadano perché accusati di essersi appropriati dei fondi – 100 milioni di dollari nel 2010, altri 4 milioni nel 2018 oltre al condono del debito per la fornitura del petrolio con Petrocaribe di 395 milioni di dollari – donati dal Venezuela come aiuti umanitari tra il 2010 e il 2018 (come si ricorderà, nel 2010 l’isola fu scossa da un terremoto che fece 230.000 morti; nel 2018 ce ne fu un altro di minore potenza). Può sembrare strano, un popolo che si ribella nelle strade alla corruzione, ma non solo. Il 28 ottobre migliaia di lavoratori del settore tessile, maestri e studenti hanno nuovamente manifestato, in una giornata di strade vuote, vie bloccate da barricate e negozi chiusi. Oltre alla rinuncia del presidente, i lavoratori chiedevano un aumento del salario minimo, definito “miserabile”. Insegnanti, studenti e genitori, in un’altra parte della città chiedevano la riapertura delle scuole, chiuse dal governo dal 16 settembre, giorno in cui sono cominciate le proteste.
Haiti non solo è il paese più povero dell’America Latina ma è uno dei più poveri del mondo, l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tutto ciò che produce reddito – il turismo, la coltivazione del caffè e dello zucchero e qualche piccola industria – è in mano a multinazionali statunitensi. All’isola, inoltre, non è mai stato perdonato di essere stato il primo paese del mondo a liberarsi dalla schiavitù, boicottando sistematicamente ogni suo tentativo di svilupparsi. Ecco allora che la corruzione passa dall’essere una questione “morale” ad essere una questione di sopravvivenza per la maggioranza della popolazione.
Elezioni… che dolore!
Se la mobilitazione di piazza è stata il tratto distintivo dei 3 paesi di cui sopra, il rifiuto del modello neoliberista è stato espresso in questo mese anche a livello delle urne in altri come la Bolivia, l’Argentina e la Colombia.
Ora, quando si parla di elezioni, siamo sempre tentati di storcere il naso dalla nostra prospettiva: nei paesi a capitalismo “avanzato” sono ormai diventate un rito vuoto in cui ci si chiede di scegliere chi meglio servirà gli interessi dei nostri capitalisti. Ma non è così in altre parti del mondo, soprattutto nei paesi oggetto della rapina più spietata da parte dell’imperialismo e delle grandi multinazionali – dove, tra l’altro, il suffragio “universale” non è mai stato universale, dove le classi sfruttate non avevano accesso neppure a questo strumento e dove eleggere non significa semplicemente scrivere una X ma scontrarsi fisicamente nelle piazze – e bisognerebbe ragionarci non in termini assoluti. Sono uno strumento, servono o no, in un determinato paese e in un determinato tempo, a far progredire la coscienza, l’organizzazione degli sfruttati, l’accumulazione di forze?
L’esempio perfetto è sicuramente il Venezuela, ma parliamo invece della Bolivia. Evo Morales vince le elezioni presidenziali (la sua quarta vittoria) con il 47,08% dei voti contro il candidato delle destre che totalizza il 36,51%. Come di consueto l’opposizione parla di brogli, immediatamente sostenuta dall’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) e dall’Unione Europea e chiama ad uno “sciopero” generale che si riduce a scontri violenti di piazza in varie città, una replica delle “guarimbas” venezuelane. Gli rispondono decine di migliaia di minatori, di lavoratori, di contadini, di donne e di giovani che scendono in piazza a La Paz e in altre città il 28 ottobre per sostenere il loro presidente. Per sostenere soprattutto il suo progetto, che va contro la logica egemonica dell’offensiva capitalista e che, come dice il segretario della COB (la Confederazione Operaia Boliviana), “è costato sangue per recuperare la vera democrazia”.
In Argentina, vince le elezioni Alberto Fernàndez, del Frente de Todos. Mauricio Macri se ne deve andare, dopo aver riportato il paese ai tempi del “Que se vayan todos” seguendo le ricette del FMI, tanto che un mese fa il Congresso doveva riconoscere che in Argentina c’è la fame (con un decreto che prevedeva un aumento del 50% delle sovvenzioni destinate alle mense popolari data la previsione della “emergenza alimentare” fino al 2022), e dove le statistiche ufficiali fissano la cifra della povertà al 32% della popolazione.
In Colombia, il narco-Stato paramilitare di Uribe e del suo delfino Ivan Duque dove chi si oppone al regime viene semplicemente, tutti i giorni, eliminato fisicamente, le elezioni regionali vedono – oltre a scontri violenti in tutto il paese – la sconfitta pesante del governo (che perde 24 dei 32 dipartimenti) , soprattutto a Bogotà, Cali e Medellin, feudo tradizionale dell’uribismo. Vincono anche due candidati ex combattenti delle FARC, Marino Grueso e Guillermo Torres (alias Juliàn Conrado, il cantante della guerriglia). La campagna elettorale, con la più alta partecipazione che si ricordi, ha un saldo di ben 7 candidati uccisi da narcotrafficanti e paramilitari. Un piccolo dettaglio umoristico: mentre Duque e Uribe diventavano lo strumento centrale degli attacchi imperialistici al Venezuela bolivariano, non si sono accorti che il terreno cominciava a franare loro sotto i piedi, nel loro stesso paese.
Anche in Uruguay ha vinto nuovamente il centrosinistra con il Frente Amplio.
Dal punto di vista dei rapporti di forze, quindi, un risultato elettorale non è uguale all’altro.
Qualche lezione
La rivolta dei popoli contro il modello neoliberista (la versione più brutale del capitalismo globale, ormai senza maschere) è una ribellione contro un modello sociale che impoverisce, nega una vita decente e persino un futuro a miliardi di persone, porta verso la distruzione stessa del pianeta.
L’insieme delle proteste sociali che hanno visto sfruttati e oppressi, soprattutto quelli giovani privati anche del futuro, mobilitati nelle strade nonostante una repressione pesante e brutale, costituisce certamente un episodio di accumulazione di forze che si è espresso in pochi giorni.
Il neoliberismo, o meglio l’imperialismo, ha subito una serie di gravi disfatte, il suo progetto è ormai in rovina e la rabbia degli sfruttati non è più diretta solo contro i governi che sono il suo strumento, ma verso quegli strumenti come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che hanno strangolato senza pietà un continente.
In modi diversi – le mobilitazioni e le elezioni – le masse di sfruttati e oppressi hanno una volta di più sperimentato la loro forza. Hanno mostrato la stanchezza dei popoli verso le politiche egemoniche dell’imperialismo, verso l’offensiva mondiale del capitale contro il lavoro, la natura e la società.
Cuba e Venezuela non sono più sole.
Non siamo maghi, non sappiamo come proseguiranno le lotte, se esse riusciranno a esprimere una avanguardia che consolidi la spontaneità e dia continuità a queste battaglie per un mondo diverso, che noi chiamiamo ancora socialismo. Ma sicuramente questo ottobre 2019 dice che la storia non è finita, che il ciclo non è finito, che la lotta di classe è tornata alla grande.