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IL PONTE BALCANICO. Boban e quel calcio alla storia: l’inizio delle guerre jugoslave

Marco Siragusa 15 maggio 2019
Il 13 maggio 1990 si giocava a Zagabria la partita di calcio tra i padroni di casa della Dinamo e la Stella Rossa di Belgrado. A distanza di un decennio esatto dalla morte del Maresciallo Tito, la Jugoslavia mostrava preoccupanti segni di cedimento. Quella partita rappresentò la fine definitiva della “Fratellanza e unità” alla base del socialismo jugoslavo.

13 maggio 1990, Stadio Maksimir, Zagabria. Da una settimana si erano svolte le prime elezioni multipartitiche in Croazia, ai tempi ancora una delle sei Repubbliche socialiste jugoslave. La fine del monopolio politico della Lega dei Comunisti aveva spalancato le porte alla nascita dei partiti nazionalisti, sostenitori del superamento del sistema federativo jugoslavo e della creazione di Stati indipendenti.
Le elezioni del 6 maggio avevano visto la netta affermazione dell’Unione Democratica di Croazia (HDZ) guidata dall’ultranazionalista Franjo Tudjman. Ex partigiano e generale dell’esercito jugoslavo, Tudjman era stato anche presidente dell’altra squadra di Belgrado, il Partizan. Dopo aver abbracciato il nazionalismo croato a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, divenne il primo presidente della Croazia indipendente.
Esattamente dieci anni dopo la morte del Maresciallo Tito, la Federazione viveva il suo momento più critico con l’ascesa di partiti apertamente anti-comunisti. Lo scontro tra Zagabria, desiderosa dell’indipendenza dal governo federale, e Belgrado, centro politico del sistema jugoslavo, superava ormai di gran lunga la normale dialettica interna al sistema autogestionario jugoslavo. Le divergenze politiche si erano trasformate in veri e propri conflitti tra le dirigenze delle singole Repubbliche, le differenze etniche e religiose venivano esasperate dai nuovi leader al potere con l’intento di creare un nemico su cui riversare aspirazioni e frustrazioni. Serbi, croati, bosniaci, sloveni, macedoni, che fino a poco tempo prima avevano vissuto quattro decenni di pace e convivenza pacifica, si trovavano adesso l’uno contro l’altro.
Le curve degli stadi divennero il luogo adatto per la diffusione del nazionalismo e per dar vita a gruppi paramilitari formati da appartenenti alle frange del tifo più organizzato e violento. Quel giorno si sfidavano in campo le squadre delle due capitali. Da una parte la Dinamo Zagabria, capitanata dall’allora ventunenne Zvonimir Boban. Dall’altra i già campioni di Jugoslavia della Stella Rossa di Belgrado, con giocatori del calibro di Dejan Savicevic e Dragan Stojkovic. Una squadra stellare che l’anno successivo, proprio mentre scoppiavano le guerre jugoslave, avrebbe vinto a Bari la sua prima e unica Coppa dei Campioni.
Quel 13 maggio, però, la partita non si giocò su un rettangolo verde e non riguardò il calcio ma la storia dell’intera Jugoslavia socialista. Il rapporto tra croati e serbi aveva ormai raggiunto il punto di non ritorno e l’incontro fu la scusa perfetta per mostrare a tutti la definitiva rottura tra le due componenti più importanti della Federazione.
Oltre tremila Delije (Eroi), gli ultras della Stella Rossa, giunsero a Zagabria a bordo di un treno che venne completamente devastato. I supporter belgradesi erano guidati da un tale ancora sconosciuto ai più: Zeljko Raznatovic, più tardi noto come Tigre Arkan. Il suo nome diventò tristemente famoso per le operazioni criminali di pulizia etnica di cui si rese colpevole, insieme al suo corpo paramilitare delle “Tigri”, durante la guerra in Bosnia. Ad attenderli c’erano i Bad Blue Boys, gruppo ultras della Dinamo già protagonisti l’anno precedente di duri cori contro i serbi nel match contro il Partizan di Belgrado.
Alle 18 lo speaker dello stadio cominciò a leggere le formazioni e proprio in quel momento cominciarono gli scontri. I tifosi serbi, dopo aver scandito cori come “Uccideremo Tudjman” per tutto il prepartita, sfondarono le recinzioni utilizzando i cartelloni pubblicitari e dirigendosi verso i rivali croati sotto gli occhi inermi della Milicija, la polizia federale. Pur rappresentando l’intera Jugoslavia, la polizia era controllata e formata per la maggioranza da serbi e questo si rese visibile nella gestione dell’ordine pubblico.
La reazione dei BBB non si fece attendere e anche loro raggiunsero immediatamente il terreno di gioco riuscendo a strappare alcuni striscioni ai Delije. La polizia prese le difese dei serbi cominciando a caricare gli ultras croati. In quel momento apparirono in campo alcuni giocatori della Dinamo, compreso il capitano Boban che ricevette un colpo di manganello da parte di un poliziotto. Boban reagì colpendolo due volte e rompendogli la mandibola con una ginocchiata al volto. Dallo stadio si alzò il coro “Boban, Boban” e il suo gesto diventò immediatamente il simbolo del nazionalismo croato e della lotta per l’indipendenza.
Poco importa se, come si scoprì qualche anno dopo, quel poliziotto fosse in realtà un bosniaco musulmano e non un serbo. Per quella ginocchiata Boban venne squalificato un anno e non poté partecipare ai mondiali in Italia.
Gli scontri durarono a lungo e si placarono, in campo, solo dopo l’intervento dei blindati della polizia. La guerriglia continuò anche all’esterno dello stadio dove decine di tram e negozi vennero devastati. Il bilancio fu di oltre cento feriti e altrettanti arrestati. 
Quella giornata divenne per i croati il momento della sollevazione contro il governo federale, il mito fondativo dell’attuale nazione croata. Quattro anni dopo, in piena guerra, i tifosi della Dinamo pensarono di dedicare a quell’episodio una statua all’esterno dello stadio. Raffigurante un soldato con un esercito dietro, la stele posta ai piedi recita: “A tutti i tifosi della Dinamo la cui guerra cominciò il 13 maggio 1990 e che finirono per dare la loro vita per la Croazia”.
Appena quattro mesi dopo un altro incontro di calcio rende manifesto quello che è sotto gli occhi di tutti. Il 26 settembre si gioca la prima giornata dell’ultimo campionato jugoslavo della storia. Il calendario mette di fronte il Partizan e la Dinamo Zagabria. Gli ospiti, forse anche per vendicare quanto accaduto pochi mesi prima in casa loro, invadono il campo e riescono a sostituire la bandiera jugoslava con quella croata. La Jugoslavia era definitivamente in guerra. 
Ancora una volta una partita di calcio scandiva le vicende politiche della Jugoslavia. Era già successo il 4 maggio 1980 quando a Spalato, durante il match tra l’Hajduk e la Stella Rossa, venne dato l’annuncio della morte di Tito. In quell’occasione tutto lo stadio si strinse in un saluto commosso al suo leader, in uno degli ultimi momenti di unità tra i popoli jugoslavi.
Quella di dieci anni dopo tra Dinamo e Stella Rossa rappresentò invece la fine della Jugoslavia, dell’unità dei popoli slavi meridionali e del socialismo autogestionario. Di lì a poco lo scontro tra serbi e croati si sarebbe spostato dai campi di calcio alle città e ai villaggi della Croazia e della Bosnia. I protagonisti sarebbero rimasti gli stessi: da un lato le truppe croate impregnate di un nazionalismo esclusivo teso alla creazione di una nazione etnicamente omogenea e “ripulita” dalla presenza serba e da tutto quello che potesse rimandare ad un passato comune, dall’altro le milizie paramilitari guidate da Arkan che proprio tra gli spalti del Marakana di Belgrado reclutava i criminali più efferati per le sue operazioni di pulizia etnica.