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USA. Negato l’ingresso alla diplomatica palestinese Ashrawi

14 maggio 2019, Nena News
La nota negoziatrice e accademica ha scritto su Twitter che la decisione americana deriva dalle posizioni che lei ha preso pubblicamente contro l’amministrazione Trump e Israele. Washington per ora tace. Lo scorso mese un episodio simile capitò all’attivista palestinese Barghuthi, fondatore del Movimento Bds.

La negoziatrice e accademica palestinese Hanan Ashrawi ha fatto sapere ieri che l’è stato negato un visto di viaggio per entrare negli Usa a causa delle sue dure critiche all’amministrazione statunitense di Donald Trump e Israele. In una serie di Tweet pubblicati ieri, Ashrawi ha anche accusato Washington di non averle fornito una ragione ufficiale per il mancato ottenimento del visto. Tuttavia, la diplomatica ha le idee chiare: la decisione americana, ha affermato, deriva dalla sua “zero tolleranza nei confronti dell’occupazione israeliana e a tutte le sue manifestazioni di oppressione, spoliazione e negazione”. “Questa amministrazione [americana] – ha aggiunto – ha deciso che non merito di mettere piede negli Usa. Spero che qualcuno lo spiegherà ai miei nipoti e al resto della mia famiglia che vivono lì”.
Raggiunto dalla Reuters, un ufficiale del Dipartimento di Stato americano non ha commentato direttamente il caso Ashrawi, ma si è limitato a dire che negli Stati Uniti i visti d’ingresso non sono rifiutati in base alle considerazioni politiche di chi ne fa richiesta fintanto che, ha però sottolineato, le dichiarazioni politiche o i punti di vista politici espressi sono “considerati legali”. La domanda a questo punto nasce spontanea: perché allora viene negato a Ashrawi di entrare negli Usa? Nell’America di Trump è ancora “legale” criticare Israele e la Casa Bianca e rivendicare i diritti dei palestinesi? Da questo caso, sembrerebbe proprio di no.
Pur nella sua gravità, il visto negato ad una figura così nota del mondo politico palestinese non è una decisione sorprendente. Da quando è stato eletto presidente, la politica di The Donald in Medio Oriente si è dimostrata sfacciatamente filo-israeliana. Nell’ordine ha tagliato i fondi all’Unrwa (Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi), ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme in barba al diritto internazionale riconoscendo così la Città Santa come capitale d’Israele, ha ritirato il sostegno all’Autorità Palestinese e ha riconosciuto il Golan siriano occupato da Tel Aviv nel 1967 come “parte d’Israele”. L’ulteriore conferma del sostegno incondizionato americano verso Israele (un vero e proprio spot per il premier israeliano Netanyahu) dovrebbe avvenire a breve quando l’Amministrazione Trump rivelerà il suo “accordo del secolo”. Il piano, progettato dal genero del presidente Jared Kushner, di fatto segnerà la fine dei sogni palestinesi ad avere un loro stato indipendente e in grado di autosostenersi (come prevede il diritto internazionale).
Contro i tentativi smaccatamente filo-israeliani degli americani, il mondo politico palestinese ha duramente protestato. Tra le voci più critiche è emersa in questi mesi proprio quella di Ashrawi che domenica aveva attaccato su Twitter Jason Greenblatt, inviato di Trump in Medio Oriente e uno degli architetti del “piano di pace” per Israele e Palestina. Greenblatt, ha cinguettato la diplomatica, è “un autoproclamato sostenitore/apologeta d’Israele”. Proprio l’inviato Usa aveva detto lo scorso febbraio che Ashrawi “è sempre benvenuta alla Casa Bianca”. Parole che sanno ora di beffa.
Quanto denunciato ieri dall’alta diplomatica palestinese fai il paio con il recente ingresso negato a Omar Barghuthi, l’attivista palestinese per i diritti umani nonché fondatore del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (Bds) contro Israele. Lo scorso 10 aprile, infatti, Barghuthi si è visto rifiutare l’ingresso negli Usa nonostante avesse documenti di viaggio validi. All’aeroporto di Tel Aviv all’attivista fu detto semplicemente che non avrebbe più viaggiato in America dove avrebbe dovuto partecipare ad un incontro a Washington fissato per il giorno seguente. Barghouti parlò di “decisione motivata politicamente e ideologicamente”. Washington non rispose allora alle sue accuse.