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Il peso delle parole e quello del razzismo

Andrea Mammone 01/03/2019
Il curatore di un interessante volume sul razzismo, nell’introduzione ai vari saggi, suggerisce come:

“Ormai da una decina d’anni, la presenza in Italia d’una mentalità e d’una violenza razzista è divenuta drammaticamente palese ed è drammaticamente crescente. Parlare di razzismo in Italia oggi, ed anzi di un razzismo italiano è dunque un necessario cimento per la nostra coscienza morale e civile”.
Tale affermazione è, ovviamente, attualissima, ma il libro è del 1992 (Il razzismo e le sue storie, Edizioni Scientifiche Italiane). Quello che è realmente nuovo oggi è la legittimazione del pregiudizio xenofobo e la sua accettazione nel discorso pubblico. Quasi nessun ambito è escluso. Si cerca, al tempo stesso, di camuffare l’odio con altri termini: patriottismo, difesa degli interessi nazionali, “pacchie finite” e così via.
Non passa quasi giorno senza episodi di discriminazione – a volte neanche troppo sanzionati dal resto della comunità o con gli autori che non comprendono neanche il razzismo contenuto nelle loro parole. Ascoltiamo in radio che “non si dovrebbe parlare di ebrei” perché “non si fa politica in questa trasmissione” – non essendo “ebreo” sinonimo di “partito politico”, chi fa tali affermazioni è, di fatto, un razzista.
Giornalmente leggiamo di ragazzini picchiati, bambini derisi o di un disprezzo verso il “nero” giustificato da un paradossale “bisogno di sicurezza”: è come se la differente pigmentazione della pelle o il luogo di nascita di un individuo debbano essere sinonimo di inferiorità o pericolosità (seguendo questa logica c’era chi considerava i siciliani, campani e calabresi come dei mafiosi).
Gli esempi potrebbero continuare quasi all’infinito – e gli ultimi dati mostrano tale trend. Il razzismo può essere, infatti, spesso subdolo, nascosto o addirittura “inconscio”. Prendiamo il caso del festival di Sanremo. Dopo il tweet del Ministro dell’Interno, “la canzone italiana più bella? Io avrei scelto Ultimo. Voi che dite?”, si scatenarono i commenti.
Il punto centrale in questo caso è la provocazione: perché il politico leghista usa “italiana” quando notoriamente tutte le canzoni in gara sono italiane? Il dubbio è che vista l’origine del vincitore, un italo-egiziano, la sua sarebbe una canzone meno italiana delle altre – e nonostante lo stesso si affretti a dire, quasi a prevenire le critiche, che è “italiano al 100%”.
A seguito di un video di un finto giornalista che dichiarava come la giuria fosse stata influenzata dalla sinistra, numerosi utenti social (definiti, con qualche ragione, “analfabeti funzionali”) gridavano allo scandalo: ecco la “fine della canzone italiana”.
Lo scandalo vero era proprio la vittoria di un “non” italiano, sebbene nato in Italia e con mamma italiana: fosse stato un cantante con padre danese forse sarebbe stato diverso. Il ragazzo in questione è un po’ scuro e ha un nome troppo musulmano. Questa idea di purezza è tipica del pensiero di estrema destra e certi atteggiamenti o affermazioni sono semplicemente atti di razzismo.
Eppure, non c’è nulla di nuovo – varia forse solo l’intensità e certamente la (maggiore) ricorrenza del pregiudizio etnico. Fin dall’inizio degli anni Novanta la Lega Nord ha politicizzato il tema dell’immigrazione, prima quella meridionale, immediatamente seguita dagli stranieri. Si inizia allora a parlare di “invasione”, “pulizia” e si sviluppa una cultura del sospetto e dell’esclusione.
Purtroppo, l’immagine pervasiva degli “italiani brava gente”, che già aveva essenzialmente cancellato il passato coloniale fascista, ha fatto passare il razzismo leghista per folclore: tanto c’era Berlusconi a tenerli a bada in una coalizione (erroneamente) chiamata “dei moderati”.
La banalizzazione o normalizzazione del razzismo oggi va di pari passo con la radicalizzazione del linguaggio (e di un suo conseguente abbrutimento) e con l’affievolimento dell’uso della logica: ma questa non è solo la vittoria dell’ignoranza, è la legittimazione dell’odio etnico.
Sappiamo tutti cosa questo ha generato tra le due guerre mondiali. In questo contesto dovremmo sforzarci di ridare centralità al ragionamento e, soprattutto, importanza al linguaggio. “Dimmi come parli e ti dirò chi sei”, ci ricorda il recente libro La più bella del mondo. Perché amare la lingua italiana (Einaudi).
Infatti, la lingua raffigura “la parte più profonda della nostra personalità … È ciò che ci consente … di incontrarci con gli altri e di differenziarci dagli altri”. Se Petrarca e Dante sono il simbolo di una bellezza linguistico-letteraria e di quell’italianità tanto decantata anche da quei nazionalisti che vogliono difendere e promuovere la canzone “italiana”, allora non stravolgiamo nemmeno la lingua di cui i poeti sono i padri. Rimettiamo in uso l’etimologia e la semantica, il significato profondo dei termini utilizzati.
Ecco quindi che quando ascoltiamo la vuotezza etimologica del suono “sovranismo” dovremmo fermarci e pronunciare quello che invece meglio descrive il senso dell’azione/atteggiamento: il razzismo. Perché, appunto, le parole hanno ancora un peso: dicono molto di noi e degli altri e oltre ai sogni descrivono anche il mondo reale.