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Femminicidi, più tutele per i figli

Vanna Iori 21/03/2019
C’è il dolore di chi rimane gravemente ferita nel corpo e nell’anima, aggredita dal compagno che diceva di amarla. E c’è il dolore di chi deve misurarsi ogni giorno con le conseguenze di un dramma che si è consumato tra le mura domestiche e che lascerà un segno indelebile per tutta la vita.

Si tratta dei figli sopravvissuti delle donne assassinate o ferite dai partner. Vittime collaterali della violenza inaudita che matura nel luogo che dovrebbe essere protettivo, di amore e di cura. Nella scorsa legislatura abbiamo approvato una legge di sostegno concreto agli orfani di femminicidio che vivono un trauma che distrugge il loro diritto all’infanzia, rende fragile lo sviluppo emotivo e introduce elementi di instabilità nel percorso di crescita che dall’infanzia conduce all’età adulta.
Bisogna proseguire su questo percorso, immaginando interventi anche per i minori le cui madri sono sopravvissute, magari ferite o sfigurate, alla violenza domestica, avvenuta spesso sotto gli occhi atterriti dei figli. Non possiamo dimenticarci di loro.
I figli spesso assistono alla violenza del padre nei confronti della madre, anzi è in crescita questo fenomeno e riguarda -come certificato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, più del 60 per cento dei figli di donne che hanno subito violenza da partner.
Molte donne non sanno che i figli maschi che assistono alla violenza hanno una probabilità maggiore di diventare essi stessi autori di violenza nei confronti delle proprie compagne e le figlie di esserne vittime. La trasmissione intergenerazionale del fenomeno, come riporta la relazione finale della commissione:
“è ben testimoniata dalla relazione esplicita tra vittimizzazione vissuta e/o assistita da piccoli e comportamento violento: il partner è più spesso violento con le proprie compagne se ha subìto violenza fisica dai genitori, in particolare dalla madre (la violenza da partner attuale aumenta dal 5,2 per cento al 35,9 per cento) o se ha assistito alla violenza del padre sulla propria madre (dal 5,2 per cento al 22 per cento)”.
Quindi si tratta di un doppio problema che si sostanzia in due domande. Come aiutare i figli delle donne vittime di violenza e come ridurre il fenomeno della trasmissione intergenerazionale?
Sono i cosiddetti “costi di seconda generazione”, legati alle maggiori difficoltà dei figli delle vittime di violenza a inserirsi nel mondo dell’istruzione e del lavoro e a non assimilare, a loro volta, atteggiamenti violenti che portano al perpetrarsi della violenza per più generazioni.
La scuola, in questo senso, deve assumere un ruolo fondamentale, mettendo in campo gli strumenti necessari per valorizzare la pari dignità delle differenze ed educare i giovani alla cultura del rispetto, per attivare tutti gli interventi di prevenzione, informazione e sensibilizzazione ma anche per sostenere i “sopravvissuti” nella difficile fase del recupero di fiducia nelle persone. Ma la scuola può essere anche un osservatorio privilegiato sulla vita dei minori, in cui figure di prossimità relazionale, come educatori e insegnanti, sono di grande importanza.
Ma chi sopravvive, le madri e i figli, deve seguire percorsi che hanno costi elevati: gli avvocati, le cure, i supporti educativi, terapeutici e psicologici, a casa e a scuola, le attività motorie per aiutare bambini, che saranno segnati per sempre, a elaborare il dolore e la paura. E sono costi a carico delle famiglie o di ciò che resta di esse.
Ecco, i sopravvissuti ai tentati femminicidi hanno diritto non solo a un risarcimento, perché nel 90% dei casi quelle stragi erano precedute da denunce non ascoltate, ma anche a un sostegno concreto e costante. Lo Stato deve mostrare il suo senso di responsabilità. Non è una elemosina, è un diritto. Perché questi bambini non siano danneggiati due volte: senza genitori e senza diritti.