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IL PONTE BALCANICO. Erdogan vuole cambiare gli Accordi di Dayton

Marco Siragusa 6 febbraio 2019
Secondo il presidente turco l’intesa del 1995 si è dimostrata fallimentare nel garantire una soluzione duratura e adeguata alla Bosnia-Erzegovina.

Favorevole all’iniziativa è la Croazia che, come Ankara, vuole marcare ancora di più la divisione etnica del Paese. Contraria invece la Serbia che teme una politica egemonica dei bosgnacchi sostenuti dai turchi.
Lo scorso 16 gennaio, la presidentessa croata Kolinda Grabar-Kitarovic e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan hanno avuto un incontro ufficiale ad Ankara. Durante la conferenza stampa successiva, Erdogan ha espresso la propria idea sulla necessità di cambiare gli Accordi di Dayton del 1995 che portarono alla conclusione delle guerre jugoslave della prima metà degli anni ’90. Per il presidente turco questi accordi, la cui revisione dovrebbe esser portata avanti dalle Nazioni Unite, hanno mostrato chiaramente il loro fallimento nel garantire una soluzione duratura e adeguata per la Bosnia-Erzegovina. La proposta ha trovato il sostegno della presidentessa croata che ha inoltre rinnovato il proprio impegno a rivitalizzare le riunioni trilaterali che si svolgono a partire dal 2010 tra Bosnia, Croazia e Turchia.
I cosiddetti Accordi di Dayton furono firmati nell’omonima località statunitense nel novembre 1995, a tre anni dall’inizio del sanguinoso conflitto in Bosnia tra serbi, croati e bosgnacchi (i bosniaci musulmani) che portò alla dissoluzione della Jugoslavia. Alle trattative, mediate dall’amministrazione Clinton, dall’Unione Europea e dalla Russia, parteciparono tutti i rappresentanti politici della parti in guerra: Slobodan Milošević, presidente della Jugoslavia e rappresentante degli interessi dei serbo-bosniaci, il presidente della Croazia Franjo Tuđman e il presidente della Bosnia-Erzegovina Alija Izetbegović. Gli Accordi diedero vita ad un complicato assetto istituzionale stabilendo la formazione di una Repubblica parlamentare federale formata da due entità politico-amministrative dotate di ampi margini di autonomia: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FbiH) a maggioranza croato-musulmana comprendente il 51% del territorio, e la Republika Srpska (RS) a maggioranza serba e pari al restante 49%.
La Presidenza della Repubblica spetta ad un organo collegiale formato da 3 membri rappresentativi dei tre popoli costitutivi che si alternano al potere per un periodo di otto mesi ciascuno, per un mandato complessivo di quattro anni. Il Parlamento federale è diviso in due camere con una distribuzione equa dei seggi su base etnica: la Camera dei Rappresentanti, composta da 42 membri (28 appartenenti alla FbiH e 14 alla RS) e quella dei Popoli, formata da 15 membri (5 per ognuna delle etnie). A loro volta, ad ogni Federazione è riconosciuto un proprio parlamento locale, monocamerale nel caso della Republika Srpska e bicamerale nella Federazione Croato-Musulmana. Gli Accordi prevedevano inoltre il diritto al ritorno dei profughi di guerra e il ritiro di tutte le truppe straniere presenti sul territorio.
In effetti, l’unico aspetto positivo di questa ingarbugliata soluzione fu quello di porre fine alla guerra ma, negli anni, si è dimostrata completamente inadeguata nel garantire la stabilità e il progresso della Bosnia-Erzegovina. La decentralizzazione e la suddivisione dei ruoli istituzionali a ciascuno dei popoli costitutivi ha avuto come effetto un’ulteriore frammentazione del paese secondo linee etniche fortemente identitarie. Emblematico del clima di continua tensione interna è il caso relativo al ritardo con cui sono stati pubblicati i risultati dell’ultimo censimento, svoltosi nel 2013 e resi noti solo nel 2016 per la paura da parte delle istituzioni di alimentare nuovi scontri tra le fazioni. Secondo i dati disponibili, la popolazione bosniaca è pari a circa 3,5 milioni di abitanti, circa 850 mila in meno rispetto al 1991, ed è composta per il 50% da bosgnacchi, per il 30,8% da serbi e per il 15,4% da croati.
Le ultime elezioni presidenziali, avvenute nell’ottobre 2018, hanno mostrato tutto il carattere contraddittorio dell’assetto istituzionale creato a Dayton. Nell’entità a maggioranza serba l’elezione di Milorad Dodik non ha creato particolari problemi, così come pacifica è stata la vittoria di Šefik Džaferović per il seggio spettante ai bosniaci, quanto accaduto per l’elezione del rappresentante croato ha invece provocato pericolose contrapposizioni all’interno della Federazione. La vittoria per il seggio croato è infatti andata a Željko Komšić del Fronte Democratico (DF) più distante da rivendicazioni nazionaliste e apertamente sostenuto dalla componente bosgnacca. Il suo rivale Dragan Čović della Comunità Democratica Croata (HDZ), lo stesso partito al governo a Zagabria, all’indomani delle elezioni ha minacciato la crisi istituzionale dichiarando che “i bosgnacchi dovrebbero rendersi conto che essi non possono eleggere anche i rappresentanti croati della presidenza”.
Da qui il sostegno mostrato alla proposta di Erdogan dalla presidentessa croata interessata a stabilire nuove relazioni che diano margini di manovra politica più ampi alla componente croata. Da parte turca l’interesse alla modifica degli attuali rapporti di forza è legato al sostegno della componente bosgnacca guidata da Džaferović, uomo fedele alla famiglia Izetbegović a sua volta da sempre in ottimi rapporti con Erdogan. La convergenza dei due paesi poggia quindi su un obiettivo comune: aumentare il potere delle singole componenti per sostenere un’ancora più marcata divisione etnica della Bosnia. Questa prospettiva è sostenuta anche dalla componente serba che si è però detta fortemente contraria alla proposta di Erdogan. Il motivo dell’opposizione non sta tanto nella difesa dello status quo, spesso e volentieri contestato dallo stesso Dodik, quanto nella paura di una politica egemonica in favore dei bosgnacchi sostenuta dal presidente turco.
Che il sistema di Dayton sia stato totalmente fallimentare nel garantire la stabilità della Bosnia è sotto gli occhi di tutti e difficilmente contestabile. La proposta di Erdogan di rivedere l’assetto istituzionale nasconde però il rischio di inasprire enormemente i già fragili equilibri bosniaci e alimentare conflitti che, fino ad oggi, si sono mantenuti su un livello prettamente politico ma che potrebbero prendere strade ben più pericolose. La soluzione migliore per la Bosnia sarebbe quella dell’unità dello Stato e dei suoi popoli. L’incapacità di fare veramente i conti con la guerra degli anni ’90 e la totale assenza di una memoria condivisa e scevra da considerazioni politiche identitarie e opportunistiche da parte dei governi coinvolti rende questa ipotesi, ad oggi, impraticabile e irrealistica. Il futuro della Bosnia-Erzegovina non si prospetta certamente positivo, almeno fino a quando tutte le fazioni in campo non decidano di mettere da parte aspirazioni nazionalistiche. Una prospettiva purtroppo ancora lontana.