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Foibe, gli italiani assassinati non ci assolvono. Non è sempre ‘colpa degli altri’

7 Febbraio 2019
Non può esserci alcun dubbio sulla fondatezza del dramma delle foibe, dove tra il 1943 e il 1947 i partigiani e l’esercito del leader comunista jugoslavo Tito gettarono tra 5mila e 10mila italiani.

Però due recenti iniziative locali dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia hanno offerto l’occasione per accusare l’Anpidi “negazionismo”.

Ha fatto bene la presidente nazionale dell’associazione, Claudia Nespolo, a prendere le distanze: “Sia la frase sulla pagina Facebook dell’Anpi di Rovigo che l’iniziativa di Parma non sono condivisibili e offrono uno straordinario pretesto di polemica a chi è molto più amico di Casapound che dell’Anpi”. Infatti quegli errori hanno regalato al leader leghista Matteo Salvini l’occasione per andare a testa bassa contro l’associazione, minacciando di tagliare i fondi destinati alla sua attività. Si tratta di contrapposizioni dannose per tutti, come ha detto uno dei massimi esperti in questo campo, Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste.
Ciò è accaduto poco prima del “Giorno del ricordo”, celebrato il 10 febbraio e istituito, dopo anni di amnesie, nel 2004: per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo Dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Giustamente si rievoca una tragedia nazionale, troppo a lungo dimenticata. Eppure c’è chi “usa” questa ricorrenza per creare, nel 2019, nuovi reticolati, magari in vista delle sempre imminenti elezioni.
Purtroppo nel nostro Paese la memoria è sempre monca; di certo – per quel che riguarda il fascismo e il periodo coloniale, anche prefascista – la gente e (ancora più grave) le istituzioni e la scuola non ricordano le responsabilità italiane in stragi e genocidi: dall’Etiopia alla Libia, dalla Somalia fino – appunto – ai territori occupati nell’ex Jugoslavia. Su quest’ultimo fronte, quasi nessuno racconta che quella ingiustificabile carneficina operata dai titini era stata preceduta dai massacri compiuti dagli italiani agli ordini di Mussolini.
Quanti hanno mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe (oggi Rab) o di quelli di Gonars, Monigo e Renicci? Nel 1941, quando l’Italia fascista (cioè noi, mica gli alieni) invase la Jugoslavia, in Slovenia e Croazia fu creata una rete di lager tricolori. Prendiamone uno, quello di Rab, di cui ha scritto qualche anno fa Alessandro Marzo Magno. Era gestito dal Regio Esercito, non dalle camicie nere. In meno di 14 mesi vi morirono circa 1.500 sloveni (per fame, malattie e stenti) su 10mila internati, inclusi vecchi, bambini e donne (il tasso di mortalità, del 15%, è stato pari a quello del lager nazista di Buchenwald).
“Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato=individuo che sta tranquillo”: lo scriveva in un telegramma (era il 15 dicembre 1942) il generale Gastone Gambara, dopo una visita nel campo di medici secondo i quali gli internati “presentavano nell’assoluta totalità i segni più gravi dell’inanizione da fame”. I prigionieri nei lager fascisti sono stati circa 100mila, quelli che non ne sono usciti vivi 5mila. Occorre aggiungere gli sloveni fucilati per rappresaglia durante l’occupazione: tra i 1.500 e i 2mila; altri 5mila montenegrini sono stati vittime dell’ondata repressiva dell’estate 1941. Più i profughi: migliaia in fuga dopo devastazioni, saccheggi e incendi ordinati dagli italiani. Poi bisognerebbe considerare le vittime “indirette”, uccise da ustascia, cetnici e altre forze collaborazioniste con gli italiani.
Ecco, si dovrebbe ricordare tutto, non solo quello che ci fa comodo. Perché non è sempre soltanto “colpa degli altri”. Proprio il mito infondato degli “italiani brava gente” ci ha impedito troppo spesso di ragionare sulle nostre stragi coloniali (abbiamo ottimi primati nell’uso di lager e gas), incluse quelle dell’Italia prefascista, o sulle nostre leggi razziali o sulla collaborazione delle nostre istituzioni con i nazisti, tanto per fare alcuni esempi.
L’amnesia provoca persino amari errori: spesso in Italia viene usata, in manifesti utilizzati da partiti politici e sui media, la foto di una fucilazione in cui il plotone d’esecuzione è definito “slavo” e le vittime sono definite “italiane”; mentre l’immagine, scattata a Loška Dolina, nella Slovenia meridionale, il 31 luglio 1942, ritrae militari italiani mentre fucilano per rappresaglia cinque abitanti del villaggio di Dane, presi in ostaggio qualche giorno prima.
Insomma, i nostri compatrioti innocenti gettati nelle foibe non ci assolvono. E oggi non si tratta di processarci e condannarci, ma di recuperare la nostra memoria storica, perché i ricordi “depurati” da responsabilità e colpe sono a volte peggiori delle amnesie. In questo senso, l’Italia ha affrontato il proprio passato assai meno della Germania, che ospita nel centro di Berlino un drammatico ed enorme monumento dedicato alle vittime dei campi di sterminio nazista.
Forse è giunto il momento per dedicare una giornata alla memoria di coloro che abbiamo massacrato. E pare anche il momento giusto per cercare di costruire una memoria europea, soprattutto in quest’epoca in cui il sogno di un continente unito sta traballando tra nazionalismi e neorazzismi. Non è mai troppo tardi.