General

PALESTINA. Ripensare l’anarchia in un paese colonizzato

Joshua Stephens 7 dicembre 2018
Riflessioni di giovani palestinesi anarchici in una terra occupata da 70 anni dove non sono mancate esperienze brillanti di auto-organizzazione, ma che fatica a pensare la lotta anti-coloniale come lotta anti-autoritaria.

“Sto ancora cercando di eliminare l’abitudine nazionalista”, scherza l’attivista Ahmad Nimer, mentre parliamo fuori da un bar di Ramallah. L’oggetto della nostra conversazione sembra strano: vivere da anarchico in Palestina.
“In un paese colonizzato, è piuttosto difficile convincere la gente della bontà della soluzione non autoritaria, non statale. Ti trovi di fronte per lo più una mentalità fortemente anticoloniale, spesso a malapena nazionalista. E infatti gli anarchici in Palestina ad oggi hanno un problema di visibilità. Nonostante l’attività anarchica di alto profilo internazionale e israeliana, non sembra esserci una consapevolezza corrispondente dell’anarchismo tra molti palestinesi”.
Le discussioni contemporanea sull’anarchia spostano l’attenzione verso un approccio di potere: rigettare il potere ‘da sopra’ in favore di un potere ‘con’. “Quando si parla di anarchia come concetto politico, la si definisce come rigetto dello Stato – spiega Saed Abu Hijleh, professore di geografia umana all’Università An-Najah di Nablus – Si parla di libertà e di una società che organizza se stessa senza l’interferenza dello Stato”. Ma come fa un popolo senza Stato ad affrontare l’anarchia, un termine che implica l’opposizione a una qualche forma di Stato come condizione della propria esistenza?
In Palestina, diversi elementi della lotta popolare sono stati spesso storicamente auto-organizzati. Anche se non esplicitamente identificati come “anarchismo”, “la gente ha già organizzato le proprie vite in senso orizzontale e non gerarchico”, dice Beesan Ramadan, altra anarchica locale che descrive l’anarchia come “tattica”, ponendosi domande sulla necessità di attribuirgli un’etichetta. “È già presente, nella mia cultura e nel modo in cui l’attivismo palestinese ha operato – continua – Durante la Prima Intifada, ad esempio, quando la casa di qualcuno veniva demolita, la gente si organizzava per ricostruirla, spontaneamente. Come anarchica palestinese, vorrei tornare alle radici della Prima Intifada. Non giunse da una decisione politica. Arrivò contro la volontà dell’Olp”.
Yasser Arafat dichiarò l’indipendenza nel novembre 1988, la Prima Intifada era cominciata nel dicembre 1987, “per dirottare la spinta dell’intifada”, dice Ramadan. La questione palestinese si è ulteriormente complicata negli ultimi decenni. Il panorama di organizzazione prevalentemente orizzontale della Prima Intifada fu eliminato nel 1993 con la firma degli Accordi di Oslo e la creazione dall’alto verso il basso dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Ora qui in Palestina – osserva Ramadan – non abbiamo il concetto di autorità che altri popoli rigettano. Noi abbiamo l’Anp e l’occupazione e le nostre priorità sono sempre mescolate. L’Anp e gli israeliani sono sullo stesso livello perché l’Autorità è per Israele uno strumento di oppressione dei palestinesi”.
Nimer condivide la sua visione, spiegando che sempre di più è condivisa l’idea che l’Anp sia “un proxy dell’occupazione”. “Essere un anarchico non significa avere la bandiera nera e rossa o essere un black bloc”, specifica Ramadan riferendosi alla tattica di protesta anarchica di vestire in abiti neri e a viso coperto. “Non voglio imitare i gruppi occidentali nel modo in cui ‘fanno’ anarchismo. Non funziona qui, perché c’è bisogno di creare un’intera consapevolezza del popolo. La gente non capisce questo concetto”. Eppure Ramadan crede che la scarsa visibilità degli anarchici palestinesi e la carenza di conoscenza dell’anarchia tra i palestinesi in generale non significano necessariamente che ne esistano pochi: “Penso ci sia un buon numero di palestinesi anarchici. Ma per lo più, almeno per adesso, è un credo personale e individuale, siamo attivi nel nostro modo”.
Questa mancanza di un movimento anarchico unificato in Palestina potrebbe essere il risultato del fatto che gli anarchici occidentali non si sono mai realmente focalizzati sul colonialismo. “Gli autori occidentali non dovevano farlo – dice Budour Hassan, attivista e studentessa di legge – La loro battaglia era diversa”. “Per un anarchico negli Stati Uniti – aggiunge Nimer – la decolonizzazione dovrebbe essere parte di una lotta anti-autoritaria.Per me, è semplicemente questo che deve accadere”.
Hassan allarga il significato di anarchismo oltre posizioni meramente contrarie allo Stato o all’autoritarismo coloniale. Fa riferimento al romanziere palestinese e nazionalista arabo Ghassan Kanafani, notando che sebbene sfidasse l’occupazione “ha anche sfidato le relazioni patriarcali e le classi borghesi. È per questo che penso che noi arabi – anarchici dalla Palestina, l’Egitto, dalla Siria, il Bahrain – abbiamo bisogno di iniziare a riformulare l’anarchismo in modo che rifletta le nostre esperienze di colonialismo, le nostre esperienza come donne in una società patriarcale e così via”.
“Essere solo parte di un’opposizione politica non ti salverà – avverte Ramadan – Per molte donne resistere all’occupazione, significa anche agire contro la famiglia”. Infatti, l’enfatizzato ritratto delle donne nelle proteste, aggiunge, maschera il fatto che in relatà molte donne devono combattere per potere essere lì. Anche partecipare a incontri serali richiede che le giovani donne superino i confini sociali che i loro coetanei maschi non affrontano.
“Come palestinesi noi dobbiamo stabilire una connessione con gli anarchici arabi”, dice Ramadan, influenzata dalla lettura di materiale proveniente da Egitto e Siria. “Abbiamo tanto in comune e, a causa dell’isolamento, finiamo per incontrare anarchici internazionali che a volte, anche se le loro politiche sono buone, rimangono intrisi di pregiudizi e islamofobia”. In un breve articolo pubblicato da Jadaliya intitolato “Illuminismi anarchici, liberali e autoritari: note sulle primavere arabe”, Mohammed Bamyeh affermava che le recenti sollevazioni arabe riflettevano “una rara combinazione di un metodo anarchico con un’intenzione liberale”, notando che “lo stile rivoluzionario è anarchico, nel senso che richiede poca organizzazione, poca leadership e anche poco coordinamento e tende a essere sospettoso di partiti e gerarchie anche dopo il successo rivoluzionario”.
Per Ramadan, il nazionalismo rappresenta un altro significativo problema: “La gente ha bisogno del nazionalismo in periodo di lotta. Ma a volte diventa un ostacolo. Sai qual è il significato negativo del nazionalismo? Che pensi solo come palestinese, pensi che i palestinesi siano i soli a soffrire nel mondo”. E Nimer aggiunge: “Parliamo di settant’anni di occupazione e pulizia etnica e di settant’anni di resistenza tramite il nazionalismo. È troppo tempo, non è sano. La gente può passare dal nazionalismo al fascismo abbastanza velocemente”.
Le folle in piazza Tahrir al Cairo hanno dato speranza agli anarchici palestinesi. Quando il presidente Morsi ha consolidato i propri poteri esecutivi, legislativi e giudiziari, i gruppi anarchici si sono uniti ai manifestanti. Quegli egiziani si definiscono anarchici e abbracciano l’anarchismo come tradizione politica. A Ramallah Nimer riflette: “Sono spesso pessimista, ma non puoi non considerare i palestinesi. Possiamo esplodere in qualsiasi momento. La Prima Intifada è iniziata con un incidente stradale”.
*Articolo pubblicato il 19 luglio 2013. Traduzione a cura di Nena News