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Onu: i paladini dei diritti umani attaccano l’Italia e difendono il burqa

Lorenzo Zuppini 14 ottobre 2018
Vengono in casa nostra con fare inquisitorio e moralistico per “valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom”, ma poi si oppongono alla decisione del governo francese di vietare il burqa, ovvero il volto coperto, nei luoghi pubblici.

Che razza di cialtronismo può alimentare una disonestà intellettuale di questa portata? E il tutto nel nome della lotta alla “discriminazione nei confronti del genere femminile”. Stiamo parlando del Comitato per i diritti dell’uomo, organismo composto da diciotto esperti con funzione di sorveglianza per conto dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani. Per non far nomi, la signora Michelle Bachelet, ex presidente del Cile e barricadera contro le nuove pseudo forme di razzismo e intolleranza. D’altronde, siamo stati forgiati dalle denunce di mille associazioni di filantropi d’accatto sulle manifestazioni del presunto regime fascio-razzista che stava affermandosi in Italia, e dunque qualsiasi tipo di illazione ci scivola addosso. Ma non possiamo non notare come un organo delle Nazioni Unite, che non è una semplice riunione condominiale, sia stato affidato a gente capace di far arrivare la propria fantasia su vette mai esplorate prima d’ora dall’uomo. Non si sono dimostrati in grado di discernere dei singoli spiacevoli eventi da un presunto sistema di odio e violenza introdotto da certa politica che si diverte a soffiar sul fuoco. Fuoco che, per altro, qualcuno dovrà pur aver appiccato. E fanno tutto questo pazziare, stralunati come sono, nel nome del rispetto delle libertà (di religione) e dei diritti (della donna). Beh, si deve avere uno spiccato senso dell’umorismo per impiegare le proprie giornate in congetture bislacche come queste, oppure una malafede altrettanto spiccata.

Posto che in Italia non si può bighellonare a volto coperto in luoghi pubblici o aperti al pubblico dal 1975, in ottemperanza alle misure volte a combattere il terrorismo politico, e posto che almeno un tribunale italiano ha sentenziato che tale norma può essere disattesa dai mussulmani, è paradossale la battaglia contro la legge francese nel nome della libertà e del diritto. Non v’è libertà in quell’indumento. Non v’è libertà dietro della spessa stoffa che annienta la fisicità di una donna omologandola a tutte le altre versanti nelle medesime condizioni. Esistono decine di interviste fatte in altrettante moschee italiane durante le quali i fedeli – rigorosamente maschi – spiegano addirittura che la copertura del corpo della donna è utile per evitare che ella divenga oggetto di violenza, trasferendo quindi la responsabilità di uno stupro non sullo stupratore ma su chi, ingenuamente, ha mostrato troppo del proprio corpo, finendo per aizzare le voglie represse del predatore. Roba che se venisse dichiarata in Italia, le sigle del femminismo talebano sarebbero subito pronte a scendere in strada con torce e forconi.
Come scoprire la vera volontà di una donna di bardarsi con un chilometro di stoffa, estate o inverno che sia? Risulta tecnicamente impossibile, a meno che sia la signora stessa a presentarsi in questura per sporgere denuncia contro chi la obbliga a travestirsi da ombrellone chiuso. Possiamo però, quantomeno, vietare rigorosamente il vestiario più coprente e, permettetemi, degradante: ovvero il burqa e il niqab, sobri indumenti esportati dagli stilisti à la page dell’Afghanistan: talebani e gentaglia simile. Tutti portenti di cui avremmo volentieri fatto a meno. Anche perché se io non posso girare col casco integrale in quanto le autorità non potrebbero riconoscermi, non comprendo per quale arcano motivo una musulmana possa invece scendere in strada col volto fasciato dal burqa. I pericoli sono i medesimi, e anch’io potrei rivendicare il mio diritto d’indossare il casco integrale sulla base dei precetti di una religione inventata di sana pianta. Tanto neanche l’islam ha stipulato alcuna intesa con lo Stato italiano, dunque l’eccezione potrebbe valere anche per il sottoscritto. Ma siate certi che io finirei giustamente corcato di legnate.
Sebbene il mercato risponda a logiche tutte sue, il grande magazzino britannico Marks and Spencer ha messo in vendita a sei sterline l’hijab per bambine d’età inferiore a nove anni, inserendolo nell’”abbigliamento scolastico indispensabile”. Spiegano che servono 250 scuole in tutto il paese, le quali mettono al corrente la multinazionale degli articoli di cui hanno bisogno di anno in anno. Parliamo di un paese con 140 scuole islamiche di cui 20 finanziate dallo Stato. Parliamo di un paese in cui i tribunali islamici proliferano ed emettono sentenze sulla base della sharia, godendo quindi di un binario parallelo rispetto alla legislazione inglese comune. Ed essendo un paese di common law, in cui l’ordinamento si basa sui precedenti giurisprudenza anziché sui codici, che valore avranno nel tempo le sentenze emesse dai tribunali islamici? Chissà se nel mondo patinato del cinema e del gossip mondiale, ove brulicano i radical chic invasionisti, qualche assatanata femminista si degnerà di bruciare uno di quei sudari, come già fecero con gli abiti di chi disse che un bambino ha diritto ad avere un padre e una madre.