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Come si smonta un dittatore: Mussolini sbeffeggiato dal poeta Dylan Thomas

PangeaNews 29 Settembre 2018
“Niente aglio, per favore, stasera devo tenere un discorso patriottico”: in “Lunch at Mussolini’s”, scritto nel 1932, l’autore immagina il Duce e la sua prorompente arte oratoria nel privato, sfottendolo a teatro.

Per prima cosa passarono da Milano, “città gigantesca, da incubo”, solo perché avevano perso i bagagli, poi giù verso la Riviera ligure, Rapallo, San Michele di Pagana, i paesi diventati una indelebile pagina delle letteratura inglese grazie a Ezra Pound, William Butler Yeats, Ernest Hemingway. Era aprile, era il 1947, quando Dylan Thomas, questa specie di Bacco malato, icona caravaggesca della poesia occidentale, questa specie di Rimbaud redivivo, folle&pingue, nato a Swansea, la città con il cigno sullo stemma, Galles, il brutto anatroccolo diventato il più grande poeta del dopoguerra, arrivò a Firenze.
Del fatidico ‘Giubbe Rosse’, dove s’affollavano i futuristi e Soffici brindava con Papini, Dylan Thomas, alieno ai bagliori dei club letterari, ricorda il tavolino. Lì sopra scrisse una delle tante, patetiche, lettere livide di lacrime alla moglie Caitlin, enormemente tradita (lei ricambiava, per altro, con godimento): “Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso. Ti amerò. Davvero ti amo. Sei la donna più bella che sia mai vissuta”. Quando i poeti arrivavano a omaggiarlo, Dylan si nascondeva. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava nel vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita” (Paul Ferris, in Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra, Mattioli 1885, 2008).
Preferiva la compagnia di Luigi Berti, grande traduttore dall’inglese: si davano, insieme, a memorabili bevute. I poeti italiani erano noiosi già all’epoca, evidentemente. Eppure, Dylan Thomas, poeta puro, che depurò la poesia dall’eccesso culturale, riportandola alla sua natura formale e ferina, ha influenzato una bella fetta della lirica italiana. Eugenio Montale e Piero Bigongiari lo onorarono con le loro traduzioni (modeste quelle di Montale), uno dei grandi poeti di oggi, Alessandro Ceni, nasce ispirato da Dylan Thomas. D’altronde, anche Dylan ha un antico debito verso l’Italia.
Siamo nel 1932, o giù di lì, Dylan è un “ladro del fuoco”, direbbe Rimbaud – l’unico paragone decente – uno che ha il fuoco lirico dentro. Nel 1932 Dylan Thomas ha diciotto anni: l’anno successivo sarebbe sbarcato a Londra con una poesia in tasca, destinata a una fama infinita, And death shall have no dominion, che strapperà sospiri a Sua Maestà Lirica Thomas S. Eliot. Di lì a pochissimo, nel 1934, Dylan Thomas sorge alla poesia inglese con la prima raccolta, 18 Poems. Nei primi anni Trenta, giovanissimo, Dylan Thomas pratica il giornalismo (sul South Wales Daily Post) e fa teatro, presso il Little Theatre, con la sua amica Ethel Ross.
Precocissimo, uno sparo, va considerata la verve ‘teatrale’ di Dylan Thomas. Dal 1945 la BBC ingaggia Dylan per una serie di conversazioni radiofoniche: lui è un po’ druido, un po’ aedo, un po’ pagliaccio. Il 18 giugno del 1946 delinea il poeta così: “un poeta è poeta soltanto per una minuscola parte della sua vita; per il resto è un essere umano, e uno dei suoi doveri è di conoscere e di sentire quanto più è possibile tutto ciò che si muove intorno e dentro di lui, così che la sua poesia possa essere il suo tentativo d’esprimere il culmine dell’esperienza umana in questa nostra strana terra che ha tutta l’aria di voler andare all’inferno”.
La poesia, estremamente, è una attitudine, un Nord delle ossa, una postura. Poi, nell’eventualità, si scrive. Dylan Thomas ci insegna che, beh, si può vivere come poeti – affollati da una strana disperazione, da una straordinaria gioia.
Gli archivi di Ethel Ross, ora, sono al Swansea University Archives, ma fu Roberto Sanesi, supremo anglista e grande traduttore delle Poesie di Dylan Thomas (la prima fu nel 1953, per Guanda, aveva 23 anni…), a fare la scoperta. “Alla ricerca di testimonianze sugli anni giovanili di Dylan Thomas, nel 1958 incontrai a Swansea Ethel Ross, cognata del pittore Alfred Janes. Nel 1932, quando Miss Ross conobbe per la prima volta Dylan Thomas allo Swansea Little Theatre, il giovanissimo poeta era già un ‘veterano’ delle peripezie filodrammatiche di quel periodo di provinciali tentativi di revival nella piccola sala di tipo parrocchiale incastrata fra il mare e la collina a Southend, Mumbles”. Ethel mostra a Sanesi “tre fogli battuti a macchina”. Titolo: Lunch at Mussolini’s. Pranzo da Mussolini. Questa la testimonianza di Ethel: “Questo particolare sketch (Thomas) me lo diede per metterlo in scena al Little Theatre. A quel tempo ero io che di solito scrivevo degli sketches comici per i partiesche si tenevano dopo ogni spettacolo; ma quello non venne mai rappresentato… Comunque, il testo l’ho ancora io”. Il testo viene pubblicato nel 1970 sulla rivista IlDramma e riproposto nel 1972, da M’Arte Edizioni in Milano, in un libro artistico, stampato in 100 copie numerate, con silografie di Mino Maccari. Ora, per altro, è leggibile in un sito italiano dedicato a Thomas, con parecchi materiali interessanti.