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Rosarno, i numeri del ghetto dei braccianti

Francesca
Buonfiglioli, Lettera43, 04 giugno 2018

Vivono da
anni in condizioni disumane. Sfruttati ma spesso in regola col permesso di
soggiorno. Chi sono i fantasmi della Piana. Dove è stato ucciso il
sindacalista maliano. Il report dell’associazione Medu.
Lunedì 4
giugno hanno incrociato le braccia e si sono messi in marcia verso il municipio
di San Ferdinando. I migranti che vivono nella tendopoli della Piana chiedono
giustizia per Soumailia
Sacko,
il sindacalista maliano freddato da un colpo di fucile nelle
campagne di San Calogero mentre aiutava due connazionali rimasti feriti a
cercare lamiere in una ex fornace abbandonata. Lamiere che sarebbero servite
per costruire baracche più sicure. Perché legno, plastica e cartone prendono
fuoco facilmente, tra fornelli improvvisati e falò per scaldarsi. Tra gli
abitanti del ghetto è ancora fresco il ricordo di Becky Moses, nigeriana di 26
anni, morta nella sua tenda in fiamme. Per due anni Becky era stata ospitata
nello Sprar di Riace. Dopo essersi vista rifiutare la richiesta di asilo, aveva
lasciato il paese e la vita che si stava ricostruendo per morire a San
Ferdinando.
 
IL CASO
SACKO. Ora nel ghetto si piange un’altra vittima. Non si sa ancora perché Sacko
sia stato ucciso. In un primo momento si era parlato di furto, come se questo
giustificasse una caccia all’uomo (nero). Tra l’altro l’ex fornace La
Tranquilla è sotto sequestro da una decina d’anni ed è senza un proprietario.
Gli inquirenti stanno seguendo la pista della criminalità organizzata. Il
29enne potrebbe essere stato punito per una “invasione di campo”.
L’ex fornace non è infatti nuova alle cronache. Già al centro dell’operazione
Poison scattata nel 2010, nei pressi dello stabilimento secondo l’accusa sono
state sepolte 135 mila tonnellate di rifiuti tossici tra cui fanghi industriali
provenienti da alcune centrali termoelettriche del Sud Italia. Dodici le
persone a processo ma la quasi totalità dei reati ipotizzati, commessi dal 2000
al 2007, è già estinta.
Il corteo
dei braccianti a San Ferdinando.

Al
momento sulla Piana resta l’uccisione di un 29enne del Mali, sindacalista e
padre di una bimba di cinque anni. Difficile, dopo i fatti di Macerata e di
Firenze, ignorare lo spettro del razzismo. «Il clima di polarizzazione e di
esasperazione xenofoba si è acutizzato negli ultimi anni e soprattutto con
l’ultima virulenta campagna elettorale», spiega a Lettera43.it Alberto
Barbieri, coordinatore di Medu, Medici per i diritti umani, organizzazione
presente anche nella tendopoli di San Ferdinando. «È un nefasto brodo di
coltura». Le istituzioni e soprattutto il nuovo governo, continua Barbieri,
«sono chiamati, oggi più che mai, a lavorare per costruire integrazione
piuttosto che fomentare l’irresponsabile propaganda dell’intolleranza».

«PER NOI
LA PACCHIA NON È MAI ESISTITA». Tra i dimostranti di San Ferdinando c’è anche
chi si rivolge direttamente al neo ministro dell’Interno. «A Salvini vogliamo
dire che la pacchia è finita per lui, perché per noi la pacchia non è mai
esistita», ha detto Ababacur Sauomaoure dell’esecutivo nazionale Usb. «Per noi
esiste il lavoro. Sappiamo che in Calabria esiste gente che ricorda il proprio
passato di migrante. Noi siamo lavoratori, italiani, africani, bianchi, neri e
gialli. Abbiamo lo stesso sangue e vogliamo gli stessi diritti». Soumaila, ha
ricordato Sauomaoure, «era un cittadino, un bracciante, aveva una figlia di 5
anni. Era impegnato nella lotta allo sfruttamento e lavorava per un salario di
tre euro l’ora al giorno. Era un uomo, un lavoratore, un sindacalista. È stato
assassinato».
Un ghetto
abitato da 3.500 persone
Soumaila
era un lavoratore che dava voce ai fantasmi della tendopoli di San Ferdinando.
Non l’unico ghetto d’Italia. Oltre alla Piana di Gioia Tauro, ci sono la
Capitanata nel Foggiano, l’Agro Pontino e Saluzzo in Piemonte. Tutte zone in
cui immigrati, comunitari e non, e italiani vengono sfruttati nei campi e nelle
serre. Anche per questo non si può parlare di emergenza o di un singolo
episodio. È quasi un decennio che anche in questo fazzoletto di Calabria si
denunciano caporalato e schiavitù. I reportage e
gli studi si ripetono
, drammaticamente, uno uguale all’altro. A
cambiare sono solo le date, i numeri e il bilancio di chi non ce l’ha fatta.
«Dalla rivolta di Rosarno del 2010 le condizioni di vita dei braccianti
immigrati sono sempre le stesse», conferma Barbieri ricordando che
«l’immigrazione è un fenomeno complesso e che per questo vanno evitate
semplificazioni e generalizzazioni».
LA
GEOGRAFIA DELLA NO MAN’S LAND. Anche la geografia di questa no man’s Land è
difficile da disegnare. Basta ricordare che si tratta della terza tendopoli in
ordine di tempo a essere allestita in questa zona. La prima, si legge nel
report di Medu, è stata realizzata a inizio 2012 con una capienza di 300
persone ed è rimasta senza gestore sei mesi dopo la sua creazione. Dopo lo
sgombero del dicembre 2013, in seguito a una relazione dall’Asl sulle
preoccupanti condizioni igienico-sanitarie, è stato allestito un secondo campo
di accoglienza, la cosiddetta “vecchia baraccopoli”. Sotto le tende
blu lacere del ministero dell’Interno e in ripari di fortuna vivono nel pieno
della stagione agrumicola almeno 2 mila persone, il 60% degli stagionali. Ad
agosto 2017 è stato allestito l’ennesimo campo, il terzo. «Con 500 posti
disponibili a fronte delle oltre 3 mila persone presenti, in assenza di
assistenza medica, sanitaria e socio-legale e di mediatori culturali», sottolinea
il report. «Si tratta ancora una volta di una soluzione di carattere puramente
emergenziale, che confina le persone in una zona isolata e lontana da qualsiasi
possibilità di integrazione e inserimento sociale». Senza contare i lavoratori
che vivono in un capannone (dalle 100 alle 120 unità) e in una fabbrica
dismessa vicini alla vecchia baraccopoli (circa 300 persone di origine maliana)
o nei casolari abbandonati che costellano i campi.
I 3.500
FANTASMI DI ROSARNO. Certo è che 3.500 mila
persone
vivono senza acqua potabile o servizi igienici decenti,
senza raccolta rifiuti, senza elettricità. Senza affidarsi a un medico di base.
Senza seguire programmi di integrazione e senza conoscere i propri diritti.
Persone ridotte a numeri. Lavoratori pagati a cottimo o sottopagati. E no, non
sono tutti “irregolari”, quei “clandestini” che Salvini ha
promesso di espellere. La maggior parte di loro ha un permesso di soggiorno ed
è imprigionata nei nostri campi da anni.
La
manifestazione dei braccianti di San Ferdinando.
Solo il
27,8% dei braccianti stranieri ha un contratto

Oltre il
90% dei lavoratori seguiti dalla clinica mobile di Medu (un campione composto
da 484 persone assistite e 662 visitate) è infatti munito di regolare permesso
di soggiorno: il 45% per motivi umanitari o per richiesta di asilo (il 41,4%,
di cui il 33% è ricorrente in primo o secondo grado avverso la decisione
negativa della Commissione territoriale), mentre oltre il 7% per protezione
internazionale (asilo o protezione sussidiaria). Nonostante questo, sottolinea
l’associazione, «meno di tre persone su 10 (il 27,82%) lavorano con contratto.
Il possesso della lettera di assunzione o del contratto non si accompagna quasi
mai alla denuncia corretta delle giornate lavorate, al rispetto delle
condizioni di lavoro e all’accesso alla disoccupazione agricola». Solo l’8,3%
dei lavoratori dice di ricevere la busta paga mentre la metà di loro nemmeno sa
cos’è. E non si tratta di migranti appena sbarcati nel nostro Paese. Buona
parte delle persone assistite (il 67%) risulta in Italia da meno di 3 anni, ma
un 4,4% vive qui da più di 10 ed è finito nel ghetto dopo aver perso il lavoro
in fabbrica, al Nord, o dopo aver perso il titolo di soggiorno di lavoro.

SOTTO
RICATTO. I dati forniti dal Commissario straordinario Andrea Polichetti nel
2017 dovrebbero fare pensare vista l’altissima percentuale di manodopera
extracomunitaria. Dei 21 mila contratti agricoli stipulati nella Piana di Gioia
Tauro, 16 mila riguardano italiani e 5 mila stranieri. Non solo. Delle 25.074
domande di disoccupazione agricola presentate lo scorso anno, 15.173 sono di
calabresi, 6.491 di operai comunitari e solo 3.410 di lavoratori extra Ue. «Si
tratta di una situazione di sfruttamento sistematico e ampiamente diffuso»,
scrive l’associazione, «facilitato dalla ghettizzazione sociale e lavorativa
dei lavoratori migranti». La denuncia è rara a causa della vulnerabilità dei lavoratori
sfruttati che «restano in balia di una sorta di ricatto che impedisce loro di
far valere i propri diritti».
UNO
SCANDALO ITALIANO. Anche le paghe sono da fame. Spesso i lavoratori sono pagati
illegalmente a cottimo: cinquanta centesimi per ogni cassetta di arance o 1
euro se sono mandarini. Nella raccolta di olive o in altre attività agricole
solitamente vengono pagati a giornata: poco più del 90% percepisce tra i 25 e i
30 euro al giorno, il 7% guadagna tra 30 e 40 euro e il 2% resta sotto la soglia
dei 25 euro giornalieri. Il lavoro, per un terzo degli intervistati, è sette
giorni su sette, senza riposo, mentre il 92,6% dei braccianti stranieri lavora
più di sei ore e mezzo al giorno. Otto anni dopo la cosiddetta “rivolta di
Rosarno”, conclude Medu nel report, «i grandi ghetti di lavoratori migranti
nella Piana di Gioia Tauro rappresentano ancora uno scandalo italiano, rimosso,
di fatto, dal dibattito pubblico e dalle istituzioni politiche, le quali
sembrano incapaci di qualsiasi iniziativa concreta e di largo respiro». Una
terra di nessuno che oggi più che mai rappresenta le contraddizioni e le
inefficienze della gestione del fenomeno migratorio. E dove «i nodi irrisolti
della questione meridionale producono i frutti più nefasti».