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La condizione delle rifugiate in Burundi. “Noi, ripudiate perché violentate in Congo”

Globalist,
20 giugno 2018

Donne e
bambini del Congo vivono in situazioni difficili nei campi profughi del Burundi.
Gvc racconta le loro storie in occasione della Giornata internazionale del
rifugiato
Rifugiate
in Burundi

Vittime
di violenza, ripudiate e isolate; in molti casi sviluppano disagi psichici e
disturbi post traumatici che aggravano la loro condizione di emarginazione nei
campi. E’ la drammatica fotografia delle condizioni nelle quali molte donne e
bambine congolesi vivono nei centri di salute di Gvc, all’interno dei campi
dell’Unhcr in Burundi. Sono le stesse rifugiate a raccontare di una fuga che
sembra non portare mai a una vera salvezza. Nella Giornata internazionale
del rifugiato 2018, Gvc ricorda: “Secondo le Nazioni Unite, ci sono stati
15 mila casi accertati di violenze sessuali in Congo. Molte sono bambine”.

La storia
di Alizia
“Sono arrivata in questo campo cinque anni fa. Sono fuggita
dalla mia terra, il Congo, a causa della guerra civile. I Mai-Mai hanno
attaccato il nostro villaggio, uccidendo e violentando le donne. Io ero una di
loro. E’ toccato anche a me, quando ancora ero poco più che una bambina. Ed è
così che sono rimasta incinta per la prima volta. Mia figlia è nata qui, in
Burundi, e ora la sua vita è insieme a me e alle sue sorelle, in questo campo
nella Provincia di Ruyigi. Mi manca così tanto la vita nel mio villaggio”. 
Alizia ha solo 22 anni, anche se ne dimostra molti di più. Oggi ha già tre
figlie che vivono con lei nel campo di Bwagiriza diretto dall’Unhcr, che oggi
conta 10 mila rifugiati (il 51% sono donne e bambine), all’interno del quale
Gvc gestisce i centri di salute, fornendo assistenza sanitaria, lavorando alla
prevenzione contro l’HIV e sensibilizzando ai temi della violenza contro le
donne, della salute psichica e riproduttiva, oltre che al contrasto alla
malnutrizione.
Il lavoro
di Gvc. Presente in 4 centri di salute nei campi delle province di Muyinga,
Ruyigi, Cibitoke e nell’area rurale di Bujumbura, l’organizzazione sostiene 58
mila rifugiati, dei quali un quarto sono bambini sotto i 5 anni. 
I casi di
violenza sono tanti e spesso lasciano segni indelebili sulla psiche di donne e
bambini. Karikumutima Theobard, uno degli infermieri di Gvc che lavorano nel
campo di Kavumu, racconta: “Una giovane rifugiata congolese ha sviluppato
disagi psichici post traumatici in seguito a un attacco militare nel suo
villaggio, durante il quale ha subito violenza. Fuggita in Burundi per
salvarsi, è stata sottoposta a un’ennesima umiliazione e a un nuovo dolore –
continua -. Suo marito l’ha disconosciuta a causa di ciò che le era accaduto e
la sua famiglia si è divisa”. 
Oltre al trauma e alla violenza, anche la
colpevolizzazione e lo stigma. Un dolore troppo grande da sopportare. Una
ferita dalla quale non è semplice guarire. Tanto più quando si viene
abbandonati da tutti. Perché, nei campi grandi come megalopoli, essere donna ed
avere un disagio psichico o un disturbo post traumatico costituisce un
ulteriore fattore di rischio.
 
Stigma e
emarginazione
Avere una malattia mentale o neurologica, così come una
disabilità, significa essere esposti maggiormente a discriminazione ed
emarginazione. “Gli epilettici, ad esempio, vengono spesso isolati all’interno
dei gruppi di amici e in alcuni casi anche all’interno delle famiglie stesse”
spiega Karikumutina Theobard. Herimana Anastasie, assistente sociale di Gvc nel
campo di Kavumu, ogni settimana organizza delle visite alle famiglie dei
rifugiati residenti nel campo che hanno bisogno di assistenza, mentre sostiene
le donne nei problemi che affrontano prima e dopo la gravidanza, ricevendole
presso il centro di salute di Gvc. “Sul fronte del planning familiare,
dell’educazione sessuale e del rispetto di genere, c’è ancora molto da fare –
dice -. Bisognerebbe educare anche gli adolescenti. Non di rado, infatti, si
verificano episodi di maltrattamenti tra ragazzi e ragazze”.
Essere
ripudiate
Le condizioni di vita nel campo sono difficilissime. Kwizera
Tierriy Hubart, agente di sensibilizzazione ai rischi dell’HIV nel centro di
salute del campo dal 2013, spiega: “I mariti di molte donne sono stati uccisi o
sono dispersi in Congo. In altri casi, le donne sono state ripudiate dopo aver
subito violenza. Così sono costrette a sposarsi di nuovo, per ottenere protezione
e stabilità, ma spesso con scarsi risultati. 
Ricordo il caso di un uomo che
sottraeva parte del pacchetto alimentare destinato alla sua famiglia per darlo
alle altre sue amanti- continua-. Sopravvivere nel campo non è semplice. Per
questo alle volte sono costrette a vendere i propri corpi ad altri uomini e si
assiste a casi di promiscuità che espongono ancora di più alla contrazione e
alla diffusione dell’HIV”. 
Per quanto chi vive nei campi abbia la sensazione di
essere precipitato in un limbo, le storie più drammatiche rimangono quelle
vissute nel proprio paese di origine. “Ho assistito a così tanti casi di donne
che arrivavano qui dopo aver vissuto violenze terribili! Ricordo la storia di
Gloria, una ragazzina di 23 anni che è stata violentata dai militari
governativi ugandesi. Sono entrati in casa nel suo villaggio per uccidere il
marito che si era schierato con l’opposizione a Musaveni. Lui è fuggito, lei,
invece, è stata barbaramente violentata. Fuggita in Ruanda insieme alla sua
famiglia, ha capito di non essere ancora al sicuro. Per questo poi ha scelto di
venire in Burundi”. 
“La violenza sulle donne e sulle bambine, in guerre
come quella in Congo così come in tutte le altre, viene usata come arma da
guerra- spiega Dina Taddia, presidente di Gvc-. In Congo, alle violenze si
aggiunge anche l’ignoranza: spesso le vergini vengono violentate perché si
crede che l’atto possa rendere immuni o far guarire dall’HIV- continua Taddia-. 
Quella in Burundi è una delle sfide più importanti che stiamo affrontando, per
la mole di rifugiati e per le frequenti emergenze cui dobbiamo rispondere. Ma
anche perché agire in questi centri sanitari significa non solo sostenere i
bisogni ma anche contribuire a diffondere buone pratiche e ad agire sulle
consuetudini e sulle abitudini culturali”.