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“Rivoluzione di velluto” in Armenia: nuova stagione di democrazia?

Eleonora
Tafuro Ambrosetti, ISPI, 29 aprile 2018

Lo scorso
23 aprile, una notizia inaspettata ha sorpreso i numerosi manifestanti che da
diversi giorni continuavano a riversarsi nelle strade della capitale armena
Erevan. Il suono dei clacson – simbolo di protesta contro Serzh Sargsyan,
l’uomo che ha dominato la scena politica armena per oltre dieci anni – non è
cessato, ma è diventato improvvisamente simbolo di giubilo e di vittoria:
Sargsyan si era dimesso dal ruolo di primo ministro, proprio come chiesto dai
manifestanti.

Il
successo di questa cosiddetta “Rivoluzione di velluto” in Armenia è dovuto a
diversi fattori, sia interni che esterni. A livello interno, la tenacia dei
vari gruppi sociali scesi in piazza è stata sicuramente determinante, così come
il carattere relativamente decentrato della protesta che – nonostante il ruolo
del parlamentare ed ex giornalista Nikol
Pashinyan
e altri attivisti come iniziatori e coordinatori delle
proteste – non aveva una chiara struttura gerarchica. L’Armenia, un Paese di 3
milioni di abitanti con una diaspora stimata di circa 8 milioni di persone e il
reddito
pro-capite più basso nella regione
, è stata recentemente classificata
da Freedom House come uno stato autoritario semi-consolidato. Tuttavia, la società
civile armena si è dimostrata in questi ultimi anni sempre più attiva: già nel
2013, gli armeni avevano protestato in massa contro il secondo mandato
presidenziale di Sargsyan; nel 2015, delle proteste di massa chiamate Electric
Yerevan
erano riuscite a far revocare al governo un aumento del 17%
dei prezzi dell’energia elettrica. Secondo un recente sondaggio,
il 70% della popolazione sostiene che gli armeni “dovrebbero partecipare a
azioni di protesta contro il governo, poiché ciò dimostra al governo che è il
popolo a comandare”.
Questa
volta, le proteste hanno tratto origine da una riforma costituzionale avvenuta
nel 2015 che ha trasformato il sistema politico del Paese da una repubblica
presidenziale a una repubblica parlamentare. Molti armeni temevano che la
riforma avrebbe cementato il potere delle autorità in carica, visto che
Sargsyan – allora Presidente – stava per arrivare al termine del secondo ed
ultimo mandato non rinnovabile. Questi timori si sono rivelati fondati quando
il 17 aprile Sargsyan – nonostante avesse inizialmente dichiarato
che non si sarebbe candidato – è stato eletto
Primo ministro dal Parlamento armeno, conservando dunque, a seguito della
riforma costituzionale, il grosso del potere nelle sue mani.
Dopo
giorni di proteste essenzialmente pacifiche scoppiate dopo l’elezione di
Sargsyan, quest’ultimo si era convinto a negoziare con il l’opposizione in un
hotel di Erevan, ma il leader delle proteste, Pashinyan, fu arrestato poco
dopo. Un corteo di studenti, sfidando le minacce della polizia, ha cominciato
allora a bloccare le strade di Erevan, mentre dozzine di soldati si sono uniti
ai manifestanti, secondo i numerosi video pubblicati sui social media. Come ha
spiegato l’analista armeno Richard Giragosian in un tweet,
“sembra che il vero punto di svolta per le dimissioni del premier armeno sia
stata la mossa da parte di alcuni battaglioni armeni di peacekeeping di unirsi
ai manifestanti, erodendo la fiducia delle autorità”. Poco dopo, il 23,
Sargsyan pubblicava una dichiarazione
straordinaria annunciando le proprie dimissioni: “Questa è l’ultima volta
che parlerò come capo del governo. Nikol Pashinyan aveva ragione. Io avevo
torto. (…) La gente in piazza è contro il mio mandato. Sto esaudendo la
vostra richiesta.” La notizia è giunta un giorno prima del 103simo
anniversario del genocidio armeno, contribuendo a rendere le commemorazioni,
già un evento estremamente sentito nel Paese, ancora più solenni. Durante le
commemorazioni, Pashinyan ha avuto un ruolo molto
attivo
, sfilando alla testa di una colonna di decine di migliaia di
persone dirette da Piazza della Repubblica al memoriale del Genocidio.
L’opposizione armena ha poi ottenuto un’altra vittoria giovedì 26, quando il
parlamento ha dichiarato che avrebbe tenuto una sessione speciale e nuove
elezioni, fissate per il primo maggio, nelle quali Pashinyan (che è a capo del
partito “Contratto Civile”) sembra essere il favorito. Nel tentativo di calmare
la piazza, il Partito Repubblicano – che ha ancora la maggioranza in parlamento
– ha rinunciato a presentare un candidato; il portavoce repubblicano, Eduard
Sharmazanov, ha detto
che ci sono prospettive “realistiche” che un nuovo primo ministro
sarà eletto il 1 maggio.
Un
fattore esterno molto importante è stato il ruolo della Russia, Paese con cui
l’Armenia è legata da fortissimi legami economici, storici e politici. Mosca è
storicamente il principale alleato militare di Erevan e funge da
garante
della sicurezza nel conflitto in cui Armenia e Azerbaigian
sono coinvolti da ormai da quasi trent’anni anni sul territorio conteso del Nagorno-Karabakh,
anche in virtù del fatto che la Russia possiede in Armenia due basi militari
che ospitano, nel complesso, circa 5000 soldati.
Economicamente,
la Russia è il principale
partner commerciale
dell’Armenia. Le rimesse sono fondamentali per
la debole economia armena, visto che costituiscono più del 13% del PIL;
quelle dalla Russia, in particolare, continuano a costituire quasi il 60% del
totale
nonostante la diminuzione dovuta alla svalutazione del rublo.
Questo dà alla Russia notevole peso politico: nel 2013, dopo un meeting a Mosca
con Putin, Sargsyan annunciò
a sorpresa di aver deciso di rinunciare all’accordo di Associazione con l’Ue
per entrare a far parte dell’Unione Economica Eurasiatica. Alla luce di tali
interessi russi e della solida relazione politica di Sargsyan con il presidente
russo Vladimir Putin, vi erano marcati timori che la Russia potesse interferire
contro un’altra “rivoluzione colorata” nel proprio vicinato, anche per paura di
possibili ripercussioni sulla propria politica interna. Ma per ora la Russia ha
adottato un approccio misurato, non condannando le proteste. Numerosi alti
ufficiali, tra cui il ministro degli esteri Sergei Lavrov e il portavoce del
Cremlino Dmitri Peskov, hanno dichiarato di non voler interferire negli affari
interni dell’Armenia, promuovendo il dialogo tra le forze politiche. Le dichiarazioni
di Pashinyan a favore del mantenimento delle relazioni positive con
la Russia hanno probabilmente rassicurato il Cremlino. Pashinyan ha confermato
che l’Armenia sarebbe restata membro della L’Organizzazione del Trattato di
Sicurezza Collettiva (CSTO in inglese) e che le basi militari russe in Armenia
sono viste come un vantaggio, non un ostacolo. Dunque, questa posizione
misurata da parte della Russia potrebbe riflettere un approccio pragmatico
secondo cui il Cremlino preferisce “sacrificare” Sargsyan e lasciare che un
nuovo leader prenda il potere, a patto che la politica estera armena e gli interessi
della Russia non subiscano sconvolgimenti. D’altronde, come ha scritto
il rinomato esperto del Caucaso Thomas De Waal, “a volte le proteste armene
sono solo proteste armene. Non tutte le rivoluzioni post-sovietiche riguardano
la geopolitica della Russia”.
Con le elezioni
del primo maggio si apre un nuovo capitolo politico per l’Armenia. Il relativo
ordine con cui la transizione è stata gestita e l’assenza di profonde
implicazioni geopolitiche come nel caso ucraino riducono le probabilità che un
periodo di caos segua le elezioni. Tuttavia, l’instabilità politica resta
sempre una possibilità, alla luce di possibili mosse delle élites attualmente
al potere per preservare i propri interessi e dai rischi di un’escalation di
violenza in Nagorno Karabakh. Passata l’euforia della vittoria democratica
delle proteste, gli armeni dovrebbero tenere in alta considerazione anche
queste altre pericolose fonti di rischio.