General

Un leader mediocre per Cuba

Carlos
Manuel Álvarez, Internazionale, 24 aprile 2018

Il
curriculum del nuovo presidente cubano Miguel Díaz-Canel è di un’insultante
mediocrità, come quelli di tutti i politici nati sull’isola dopo il 1959.
Il nuovo
presidente cubano Miguel Díaz-Canel insieme al presidente uscente Raúl Castro
all’Avana, Cuba, il 19 aprile 2018. (Adalberto Roque, Afp)

Si è
laureato in ingegneria elettrica nei primi anni ottanta, ha lavorato nelle
forze armate e poi, con la rivoluzione sandinista già al potere, ha partecipato
a una missione internazionalista in Nicaragua. A 33 anni, età in cui Fidel
Castro entrava all’Avana, Díaz-Canel era a stento asceso alla carica di
segretario del Comitato nazionale della gioventù comunista.

Di fatto,
con Fidel al potere, il nume tutelare degli uomini nuovi del socialismo,
Díaz-Canel probabilmente non sarebbe mai andato oltre il posto di secondaria
importanza che gli hanno permesso di occupare per quindici lunghi anni: quello
di sindaco comunista di una sgangherata e polverosa provincia del paese. Prima
a Villa Clara, al centro dell’isola, dal 1994 al 2003, e poi fino al 2009 a
Holguín, nel nordest, ancora più lontano dall’Avana e da Dio.
Fidel amava
circondarsi di giovani che credeva intelligenti, che però alla fine hanno
dimostrato di non esserlo tanto, perché la prima cosa che chiunque facesse
temporaneamente parte della cerchia di uomini di fiducia del comandante doveva
sapere, se ancora nutriva un po’ di amore per se stesso, era che non poteva
mostrare troppa autonomia intellettuale, sagacia diplomatica o qualsiasi altra
forma di capacità di giudizio che lo facesse apparire un potenziale rivale.
Negli
ultimi cinque anni Díaz-Canel è riuscito a non dire niente di memorabile
Con Raúl
Castro la questione è stata risolta in anticipo. Nessuno che sia in grado di
fare un discorso decente, senza confondersi o dimenticare a metà strada quello
che è stato mandato a dire, ha la possibilità di far parte della corte
tecnocratica e in gran parte analfabeta del fratello minore. Un curriculum come
quello di Díaz-Canel, che non dice molto, o che dice solo di essere uno che ha
capito il valore della sottomissione, per Raúl era perfetto.
Nel 2009,
quando Fidel era convalescente, Raúl mandò a prendere il suo successore e gli
affidò il ministero dell’istruzione superiore, posto in cui Díaz-Canel, per
quanto ne sappiamo, non ha fatto nulla che valga la pena di ricordare.
Nel 2013
Díaz-Canel è stato eletto primo vicepresidente del consiglio di stato, e nel
corso degli ultimi cinque anni – che non sono stati anni qualsiasi perché sono
stati quelli della riforma dell’immigrazione, della ripresa dei rapporti
diplomatici con gli Stati Uniti, della visita di Obama, della morte di Fidel
Castro – è riuscito a non dire niente di memorabile.
Il
torpore dell’obbedienza

Per molti anni, sono stati tanti quelli che hanno fallito al colloquio di
lavoro per il posto di sostituto, o hanno creduto di essere già amministratori
della proprietà personale in cui i Castro avevano trasformato Cuba, mentre
stavano solo facendo un periodo di prova. Quindi si tenderebbe a pensare che
Díaz-Canel abbia una qualche virtù segreta che gli altri non hanno, che abbia
capito qualcosa che nessun altro intorno a lui ha saputo capire e che se lo sia
tenuto per sé.
Ma
pensare questo è un errore, perché Cuba è un paese senza nessun mistero
politico da decifrare. Il motivo per cui Díaz-Canel adesso è presidente è che
rappresenta meglio di chiunque altro il racconto nazionale della sopravvivenza
fisica che, come sanno tutti quelli che hanno vissuto a Cuba, è un racconto di
immersione cosciente nel torpore dell’obbedienza.
Lo ha
detto chiaramente Raúl, nel momento in cui si è insediato il suo pupillo: “ È
nato a Villa Clara, dove è rimasto abbastanza, perché era un territorio che
conosceva bene; e soltanto in seguito è stato inviato in una delle grandi
province orientali, Holguín, come abbiamo fatto con una dozzina di giovani, la
maggior parte dei quali sono poi arrivati a far parte dell’Ufficio politico, ma
non siamo riusciti a completare la loro preparazione e lui è l’unico
sopravvissuto”.
Nel 2017,
è trapelato il video di una conferenza dei quadri del Partito comunista nella
quale Díaz-Canel attacca vari mezzi di comunicazione indipendenti e dichiara
che intende chiudere la piattaforma digitale della rivista OnCuba. “Scoppi pure lo scandalo che deve
scoppiare. Dicano pure che censuriamo”, ha concluso, “qui tutti censurano”.
Insomma Díaz-Canel sta rappresentando il ruolo di uomo forte in un momento
chiave, ma non sembra molto a suo agio nel personaggio. Non spaventa nessuno.
Attorniato com’è dai militari, dai veri mastini, cosa che lui non è.
Diaz-Canel
è un politico pusillanime, è questa potrebbe essere un’ottima notizia per Cuba.
Anche la sua mediocrità è di buon auspicio. La mistica e la crudeltà dei leader
eroici hanno spinto il paese in questo vicolo cieco.
Qualcuno
ancora ricorda che quando era sindaco di Villa Clara Díaz-Canel autorizzò i
primi spettacoli di travestitismo a Cuba e permise alcuni tentativi di
giornalismo d’inchiesta nella provincia. Inoltre, girava la città in
bicicletta, vestiva in modo informale e ascoltava i Beatles, tutti dettagli che
lo facevano sembrare una sorta di liberale moderno tra la fauna ammuffita dei
dirigenti comunisti.
Oggi, non
sapendo a che cosa attaccarsi, i cubani potrebbero pensare che questo
Díaz–Canel sia rimasto per vent’anni in naftalina, rappresentando al tempo
stesso sia il tipo di dirigente docile che il castrismo sperava che fosse, sia
uno che aspirava a una promozione.
In
qualsiasi caso, difficilmente la sua strategia di sopravvivenza funzionerà
ancora. Quello che le circostanze storiche faranno di lui, quanto lo
sballotteranno, non lo possiamo ancora sapere, ma il nuovo presidente cubano è
quello che è.