General

Israele: migranti, problema etnico più che economico

Di Stefania
Severini, L’Indro, 3 aprile 2018

Il caso
dell’ accordo ONU-Israele sui migranti spiegato dall’analista Giuseppe Dentice
e dal giornalista e scrittore Eric Salerno

Israele
continua ad essere al centro delle cronache estere degli ultimi giorni, tra ‘proteste di
sangue
’  e problemi di immigrazione. È notizia di questa
mattina, infatti, che l’accordo cercato con l’UNHCR a proposito della
dislocazione di circa 16mila richiedenti asilo è stato annullato, dopo la
sospensione annunciata nella serata di ieri. Il clima a Tel Aviv oggi è pesante
e per questo non sono tardate le dichiarazioni
del leader dell’opposizione Isaac Herzog, il quale vedeva questo accordo come
la soluzione migliore per fronteggiare la delicata situazione (diplomatica e
umanitaria), ha chiesto le dimissioni del Presidente israeliano Benyamin
Netanyahu.
“I fatti
devono essere inquadrati in due dimensioni, una puramente domestica israeliana,
l’altra meramente internazionale. Nel primo caso l’azione israeliana con le
Nazioni Unite da un punto di vista prettamente politico potrebbe spiegarsi con
un’intenzione del Governo di far uscire questa storia per distogliere l’attenzione
mediatica dai fatti avvenuti in questi giorni nella Striscia di Gaza” commenta
Giuseppe Dentice analista dell’ ISPI (Istituto per gli Studi di Politica
Internazionale), che ci ha aiutati a comprendere cosa sta accadendo in queste
ore: “Da un punto di vista sociale, l’iniziativa accoglie le richieste popolari
di dare una risposta sociale efficace all’afflusso dei migranti africani
affollatisi nelle periferie dei grandi centri, come Tel Aviv (in particolar
modo, dove qui è concentrato il 90% di tutti i migranti africani), dove esiste,
a loro dire, una vera e propria ‘Little Africa’ di difficile gestione.
Chiaramente il disagio si è trasformato in speculazione politica con una parte
dell’esecutivo, posizionato su idee più radicali in termini di gestione del
fenomeno migratorio e vicino alle posizioni di Jewish Home, il partito politico
del vice premier Naftali Bennett, che ha criticato l’accordo di Netanyahu con
l’Unhcr per non aver ricollocato l’intera comunità africana nel Paese
all’infuori dei confini nazionali. Di converso, questo accordo ha effetti sia
sulla tenuta sempre più pericolante dell’esecutivo a guida Netanyahu in
Israele, sia sui paesi presunti destinatari dei ricollocamenti come Italia e
Germania, che avrebbero dimostrato stupore per l’annuncio del premier
israeliano”.
Un
accordo che, come appena detto, per un attimo ci ha riguardato da vicino, poiché
prevedeva, secondo quanto rilasciato dal Presidente israeliano, che la metà dei
38mila migranti giunti in Israele tra il 2005 e il 2012 – quelli ritenuti
migranti economici e non bisognosi di asilo politico – venisse redistribuita
gradualmente, nell’arco di 5 anni, tra alcuni Paesi occidentali, tra cui
proprio l’Italia (insieme a Germania e Canada): chiaramente una dichiarazione
che ha scatenato subito un putiferio, alla quale il ministero degli affari
esteri italiano ha risposto con una netta smentita, dichiarando di non aver
siglato alcunché. A seguire, la spiegazione di Netanyahu, secondo cui citare il
nostro paese sarebbe servito soltanto a fare un esempio dei Paesi occidentali
che avrebbero potuto accogliere la loro richiesta.
“È
presumibile pensare che questa intesa non fosse stata ancora affinata e che i
paesi interessati dall’accordo non avessero accolto tutte le clausole
dell’iniziativa israeliana”, continua Giuseppe Dentice, “allo stesso tempo
quando la notizia è venuta fuori, Italia e Germania hanno smentito tutto, forse
anche per opportunità politica, viste le recenti campagne elettorali nei due
paesi fortemente segnate dall’argomento migratorio. Alla luce di ciò e con il
rischio di aprire un incidente diplomatico, Netanyahu ha dovuto fare
retromarcia e dichiarare sospesa l’intesa, qualora mai essa fosse stata
realmente chiusa”.
Si sta
parlando di migranti, per lo più di origine eritrea, sudanese e sud-sudanese,
che fino a qualche mese fa prima del presunto accordo, avevano come unica
destinazione quella di esser deportati negli Stati africani del Rwanda e
dell’Uganda (due paesi con cui Israele mantiene ottimi rapporti diplomatici),
nel frattempo però detenuti per non più di 60 giorni nelle carceri israeliane.
La deportazione sarebbe dovuta iniziare nel giorno di Pasqua, ma era stata
ritardata dalla Corte Suprema per una richiesta fatta da un’associazione di
migranti. Secondo Netanyahu, non si tratterebbe di rifugiati politici ma solo
infiltrati che cercano lavoro di cui il 60% vive a Tel Aviv. A quanti non
sarebbe stato riconosciuto lo status di richiedenti asilo, era stata sottoposta
una scelta prima del presunto accordo: 3.500 dollari per rimpatriare o
scegliere una nuova destinazione (per l’appunto Rwanda e
Uganda
, anche se la smentita di accordi c’era stata già da parte di
queste), altrimenti andare in prigione. Alle espulsioni si era opposta gran
parte della società civile, con appelli come quello di una certa rilevanza
morale a firma di sopravvissuti all’Olocausto, i quali dicono di non
riconoscersi in uno stato così, che «la
deportazione snatura l’essenza di Israele
».
Questa
soluzione dei cosiddetti ‘rimpatri volontari’ non si prefigurava comunque
davvero applicabile, poiché come ci spiega ancora Dentice dell’ISPI, “l’ipotesi
di donare un incentivo economico di 5.000 dollari al Paese ospitante per ogni
migrante partito verso questa direzione è stato mal visto anche dalle autorità
giudiziarie israeliane, come la Corte Suprema, che ha chiesto al governo di
rivedere tali ipotesi per varie motivazioni, tra cui anche quelle umanitarie,
poiché i paesi africani come Rwanda e Uganda non garantirebbero standard
democratici e di reinserimento sociale agli individui in questione una volta
arrivati lì. Anzi il rischio è che possano essere esclusi socialmente nei paesi
che invece avrebbero dovuti accoglierli o addirittura incorrere in nuove tratte
che alimentano
l’immigrazione clandestina verso il Nord Africa
Il fatto
che l’accordo con l’UNHCR sia saltato, però, è qualcosa dovuto non solo alla
pressione internazionale ma anche e soprattutto a quella interna, come ci tiene
a precisare da Gerusalemme Eric Salerno, scrittore e giornalista esperto di
questioni africane e mediorientali: “Non è stata tanto la reazione
internazionale e europea, quanto quella di una parte degli israeliani,
specialmente del Governo, perché si trattava di un accordo che li obbligava a
tenere, comunque, i restanti 18mila che loro non vogliono a prescindere, perché
significherebbe lasciare in una zona non proprio periferica ma nemmeno centrale
di Tel Aviv altre 10mila persone che la gente di quel quartiere non vuole”,
infatti ben il 60% dei migranti africani si trova nella periferia sud di Tel
Aviv. “Poi certo, c’è stata anche la protesta da parte dell’Italia, ma sta di
fatto che la rinuncia dell’accordo è giunta più per una pressione interna
anziché estera. Una pressione che sicuramente aumenterà”.
Il
rifiuto categorico di Israele verso i migranti farebbe pensare che ciò risponda
ad un’esigenza economica, di insufficienza nell’assorbimento degli stessi.
Quella di Israele è un’economia sicuramente giovane, che è cresciuta molto
anche nell’ultimo anno, con un Pil aumentato del 2,7% nel secondo quadrimestre
del 2017, con un incremento sia degli investimenti industriali, sia dei
consumi, stando all’ analisi
riportata dal Ministero dell’Economia dello Stato di Israele; aspetto che però,
dall’altra parte, “non può mascherare problemi strutturali e collegati
principalmente ad una crescita della sperequazione sociale tra ricchi e poveri,
che si manifesta ad esempio nelle difficoltà relative agli alloggi nelle grandi
città nei confronti dei giovani. Altro problema non proprio di poco peso è la
questione socio-economica”, prosegue Dentice, “relativa alla componente
ultra-ortodossa, i quali non lavorano e non pagano le tasse ma ricevono aiuti e
stipendi da parte del Governo. Infine, ma non per questo meno rilevante, è il
costo in sostanza a carico dello stato della costruzione e mantenimento della
gestione delle colonie ebraiche in Cisgiordania. In una società giovane e
dinamica come quella israeliana, avere dei pesi sociali o delle disparità forti
all’interno della stessa comunità di fatto non permette uno sviluppo pieno del
proprio potenziale economico”
Lo status
di Paese perennemente in guerra è qualcosa che influisce in modo ambivalente
sull’economia, perché se da un lato questa cosa li rende debitori verso gli
Stati Uniti, che contribuiscono in modo sostanzioso al loro bilancio militare e
che devono vedere tornare indietro necessariamente qualcosa (“se comprano 10
caccia di ultima generazione lo fanno negli Stati Uniti, con i soldi che loro
gli hanno ‘regalato’”, precisa Salerno), dall’altro lato questo non rappresenta
un vero e proprio freno alla loro espansione, anzi: “Nel 2006 vi è stato il conflitto
tra Israele e Libano e numerosi razzi di Hezbollah colpirono o finirono nei
pressi di Haifa, terza città israeliana e distretto industriale e digitale di
primissimo livello. Nonostante questo, il Pil all’epoca crebbe del 6%. In
sostanza, il fatto di essere da sempre un Paese in perenne stato di guerra o
minacciato dai conflitti, nonché la flessibilità della sua stessa struttura
economica, permettono al Paese di reagire meglio di altri alle difficoltà in
questione, dimostrando elasticità e resilienza di fronte alle difficoltà.
Chiaramente non significa che tutti i comparti crescano allo stesso modo”,
conclude Giuseppe Dentice.
Ma allora
cos’è che rende impellente la necessità di espellere i richiedenti asilo
africani dallo Stato di Israele? Una ragione puramente sociale che ci spiega
ancora Eric Salerno: “Israele ha la possibilità economica di assorbire una
parte di questa popolazione, ma non lo vuole fare perché in questo modo si
andrebbe necessariamente a cambiare il carattere particolare di questo Stato e
infatti è qui che risiede l’essenza della protesta. Finché si tratta di persone
utili da sfruttare nell’edilizia oppure come assistenti per le persone anziane
e che poi vanno via, va bene. Quando però cominciano a formarsi le nuove
generazioni che crescono di fatto parlando ebraico, a volte andando anche nelle
scuole primarie ebraiche, lì si sta cambiando la popolazione. Già fa fatica
avere un 2% della popolazione che non è ebraica ma araba, cristiana, musulmana.
Avere anche una popolazione africana non piace per niente: nel tempo sono
arrivate due ondate di ebrei dall’Etiopia, etiopi storicamente ebrei: non
potevano dir loro niente, ma venivano e vengono tutt’ora trattati come
cittadini di serie B, perché o non si sono integrati bene o non sono stati aiutati
a integrarsi bene. Una forte componente di razzismo è presente anche qui come
in Europa”.