General

Sicurezza alle frontiere: un rebus “sovrano”

Di Virgilio Carrara Sutour, L’Indro,
27 marzo 2018

Come si
muoverà il nuovo Governo sulla tutela del limes esterno? Incognite politiche e
strutturali. Risponde Alessandro Quarenghi, Professore di Relazioni
internazionali dell’Università Cattolica di Brescia
Pur in
assenza di una maggioranza, se Movimento 5 Stelle e Lega terranno fede ai
contenuti dei rispettivi programmi elettorali, è probabile che l’attitudine al
consolidamento di una ‘frontiera esterna’, con le diverse questioni – e
frizioni – rientranti nella sfera della sicurezza comune europea, sarà
rafforzata.
Dal punto
di vista dell’azione politica, la stretta sui flussi migratori illegali, lungo
un filo rosso che collega le intese tra il Ministro dell’Interno Marco Minniti
e i capi libici al recente intervento militare italiano in Niger, stabilisce un
rapporto diretto tra contenimento del fenomeno migratorio e lotta ai
trafficanti di beni e persone che, con tutte variabili di scala e modalità, lo
gestiscono. Sullo sfondo, come agente collante, rimane la lotta al terrorismo.
La tripartizione delle minacce alla sicurezza è, così, attualmente scandita
secondo una mobilità umana illecita, portatrice di potenziale criminalità
attraverso comprovati canali, a loro volta, criminali.
Un
esempio, in via bilaterale, è dato dai rapporti Italia-Tunisia: nell’incontro
del 13 febbraio, Minniti e il suo omologo Lofti Brahem hanno rafforzato un
reciproco impegno per contrastare la rotta dei traffici che collegano la costa
tunisina alla Sicilia, dopo il ruolo di rilievo assunto dalla Direzione
distrettuale antimafia di Palermo con il successo, la scorsa estate,
dell’operazione anti-traffico condotta dalla Guardia di Finanza e coordinata
dalla Dda (Operazione ‘Scorpion fish’).
In ambito
europeo, dopo ‘Triton’ (avviata nel 2014), l’Agenzia della Guardia di frontiera
e costiera – meglio nota con il vecchio nome di ‘Frontex’ – ha lanciato il 1
febbraio l’Operazione ‘Themis’, missione navale di ricerca e soccorso nel 
Mediterraneo centrale, che prevede maggiori controlli dell’Agenzia sulle Forze
dell’ordine coinvolte e due novità: il criterio dello sbarco delle persone nel
porto più vicino al punto in cui è stato effettuato il salvataggio e una
riduzione della zona operativa delle unità navali italiane entro le 24 miglia
dalla propria costa (secondo quanto già suggerito dal Procuratore di Catania
Carmelo Zuccaro).
«Con ‘Themis’»,
commenta Fabio
Caffio 
, ex-Ufficiale di Marina ed esperto in diritto
internazionale del mare, «ha termine la sorveglianza nell’area di 138 miglia
dalla Sicilia parzialmente sovrapposta alla zona Sar maltese, affidata
all’Italia sia per il coordinamento dei soccorsi sia per l’accoglienza in
propri Pos.» cioè i ‘luoghi sicuri di sbarco’. «Si ritorna così
all’antico, alle dispute sui limiti delle due zone e sulla pretesa
di La Valletta di identificare aprioristicamente il Pos col porto più
vicino al luogo di soccorso, cioè gli approdi tunisini o di Lampedusa».
Per
ragioni ‘di costituzione’, la sovranità degli Stati ha a che vedere con il
controllo delle frontiere, e Frontex (organismo europeo nato nel 2005, avente
natura giuridica privata e comprendente Polizie di frontiera e Guardie costiere
di diversi Stati anche esterni all’UE) da questo di vista conferma, con
l’ultimo rapporto (Risk Analysis
2018
) la sua impronta
intergovernativa
, pur nella volontà di «estendere la cooperazione
tra le varie autorità, contribuendo alla lotta contro i vari reati
transfontalieri, nonché un ulteriore coordinamento negli sforzi di ricerca e
soccorso».
In questo
scenario complesso, il fenomeno migratorio, con le questioni di governance che
è in grado di suscitare, è ormai diventato, in negativo, un modo per ‘guardarsi
dentro’. Sul Governo che verrà – quale che sia – grava allora un interrogativo,
nonostante l’opacità delle scelte future: allontanare le frontiere,
esternalizzandole nel quadro di una tutela securitaria della propria
cittadinanza, non equivale a differire il problema, puntando su una logica di
breve periodo fondata unicamente sui numeri?
Ne
abbiamo parlato con Alessandro Quarenghi, Docente di Relazioni internazionali
all’Università Cattolica di Brescia.
Professor
Quarenghi, in un Suo articolo
del 2016 pubblicato dall’ISPI, parlando di come si è modificato l’assetto
securitario europeo dopo la Guerra fredda, faceva notare come, di fronte
all’aumento di intensità e alla mutata natura delle minacce, rafforzare il
sistema comporti «una maggior coincidenza fra spazio di sicurezza» –
prerogativa fortemente difesa dai singoli Stati a scapito di un più omogeneo
coordinamento – «e area di libero movimento» garantito dalla Convenzione
di Schengen
.
Come si è
evoluto questo rapporto nell’ultimo biennio? C’è stato un progresso nel
ravvicinamento dei due ambiti, nel senso della «maggiore efficacia della
cooperazione interna ed esterna» ricercata dall’UE?
Certamente
ci sono vari tentativi e segnali di convergenza verso uno stato di controllo e
gestione dell’area di sicurezza che sia più rispondente alle attuali necessità.
Pensiamo soprattutto alla Politica di Sicurezza e Difesa comune (PSDC),
che mira a proteggere la cittadinanza e risponde a situazioni esterne di crisi
o conflitto, e alla nuova cooperazione difensiva europea (PeSCo).
Si tratta, però, di ‘segnali’: lo sviluppo di una cooperazione avanzata in
materia di sicurezza non potrà portare – almeno, in tempi brevi – a un sistema
difensivo internazionale dotato di un esercito europeo. Ad ogni modo, negli
ultimi due anni, i passi effettuati su varie direttrici per un maggiore
confinamento e controllo delle frontiere esterne, richiamano la dimensione di
questo processo: a livello di UE, i tempi sono lunghi, gli attori moltissimi e
le priorità politiche presenti all’interno dei singoli Paesi possono pesare
molto.
Perciò,
da una parte, abbiamo il tentativo di aumentare l’efficienza nella gestione
delle questioni inerenti alla sicurezza, con un più forte coordinamento e la
proposta di un percorso di lungo periodo; dall’altra, le dinamiche politiche
che interessano gli Stati prediligono tempistiche molto più brevi.
Significativamente, l’Italia è un Paese che domanda brevità ed efficacia rispetto
a quanto l’UE può offrire in questo momento storico.
A cosa è
dovuta questa differenza di misura nel valutare l’efficacia di un intervento in
materia?
Gestire
la sicurezza è una questione di pertinenza, che soffre di un problema
strutturale di lunghissimo periodo. Di fatto – e di diritto – la sicurezza è di
competenza statale, quindi ciò che l’UE può fare è migliorare il coordinamento
tra i singoli Governi. Una coincidenza assoluta tra le aree sicurezza europea e
statali, per come sono congegnate, comporta una trasformazione dello Stato in
Europa. In altre parole, comporta uno ‘Stato’ europeo.
Che peso
assume, in tutto questo, il ruolo di un’agenzia come Frontex?
Frontex
fa quello che può. Il passaggio da ‘Triton’ a ‘Themis’ è un tentativo di
aumento di efficienza eliminando alcune storture del programma. Tuttavia,
Frontex rimane un attore che, anche all’interno del Mediterraneo, ha un ambito
di competenza condiviso con altre agenzie (come l’Agenzia europea per la
Difesa, AED,
con sede a Bruxelles), oltre ad avere una capacità di gestione del fenomeno
molto parziale: in questi anni ha dimostrato di potersi occupare numero di
migranti relativamente basso rispetto ai numeri
assoluti
. Con la nuova operazione, si cercherà di eliminare alcune
criticità e deficienze funzionali. L’operato dell’agenzia è stato molto
criticato da parte dell’Italia: Themis si propone di ottimizzarne l’attività,
benché Frontex sicuramente non sia l’attore principale all’interno dello
scenario. Nella sostanza, si cerca di aumentare tenuta della ‘toppa’, ma
l’acqua continua a entrare.
A cosa
imputare le responsabilità maggiori di questi limiti di margine
nell’intervento? Il sistema, nel suo complesso, ripartisce le competenze in
modo sbilanciato tra Stati e agenzie (non solo quantitativamente, sui numeri,
ma anche rispetto alla natura delle operazioni) ?
Sì, è un
problema strutturale dell’UE. È difficile riuscire a risolverlo se non
attraverso un processo che sia in grado, in tempi brevi, di creare strumenti
che riparino il buco, senza, semplicemente, mettere la toppa.
Cosa vuol
dire esattamente?
La capacità
di avere una gestione comune delle frontiere e della sicurezza esterna e
interna. In termini politologici, l’UE diventa uno Stato europeo. Altrimenti la
gestione ultima del fenomeno migratorio rimane in capo agli Stati. Quindi, nel
momento in cui l’azione di coordinamento e il ruolo che l’UE ha in base ai
trattati, non le consentono di affrontare la portata del fenomeno, sarà
evidentemente molto più semplice per gli Stati riappropriarsi delle proprie
competenze piuttosto che, per l’UE, crearsene di nuove.
Non ci
sono Stati propensi a offrire un impulso in questa direzione riformista?
A parole
tutti gli Stati si impegnano per una maggiore solidarietà europea.
Concretamente, non lo fa nessuno.
La
sicurezza è una condizione necessariamente da garantire e, in questo senso, va
al di là del colore del Governo, anche se poi i contenuti possono cambiare…
Parlando
del singolo Governo, ciò che conta è la narrativa interna sulla migrazione, che
porta Stati e Governi, anche di diverso colore, a comportarsi in maniera poi
non così differente: la gestione di Minniti, per esempio, si distanzia rispetto
a quelle che sono, tradizionalmente, le posizioni della Sinistra
sull’immigrazione. Il fatto è che abbiamo strumenti che, al momento, non sono
in grado di affrontare il problema propriamente. Quando si parla di tratte e
trasporto di persone e di beni, l’iniziativa, per una logica implicita al
percorso migratorio, dovrebbe occuparsi di gestire la partenza, il percorso e
l’arrivo.
Come si
fa ad agire su questi tre ambiti e quale privilegiare?
Se
l’arrivo dei migranti è costruito, secondo la comprensione interna, come una
questione di sicurezza – una questione che va avanti in tutti i Paesi, fin
dalla fine della Guerra fredda -, si dovrebbe cambiare la percezione sociale
con una serie di politiche molto complesse e di lungo periodo, capaci di
trasformare l’immagine del migrante da soggetto che causa problemi a risorsa
umana che risolve problemi. Un percorso che, politicamente, è complicato da
attuare perché è lungo ed esula dalla capacità politica di proporlo: è più
semplice ricercare soluzioni più veloci. Se, invece, si parla del luogo di
partenza, anche quello è particolarmente complicato: il discorso sulla gestione
della sicurezza nell’UE, fino al 2012, reggeva perché si cooperava con gli
Stati: si chiudeva un occhio ogni tanto su quel che succedeva, ma i numeri
(limitati) consentivano questo sistema, anche se già allora gli Stati nazionali
– Italia compresa – siglavano intese bilaterali, non cioè in ambito UE.
Quando
saltano gli Stati, salta tutto. Mentre aumenta il numero di migranti…
Come fa
uno Stato ad agire nei luoghi di partenza se non ha una controparte statale con
cui trattare?
Non può.
Si può fare come ha fatto Minniti, tentando di continuare a gestire a distanza,
con interlocutori ‘belli’ o ‘brutti’. Ossia: si diminuisce il flusso dei
migranti temporaneamente, risolvendo il problema sul piano politico interno, ma
lo si fa con tutte le storture dal punto di vista etico e umanitario.
Fondamentalmente,
non potendo agire né a casa né ‘là’, si trasferisce l’intervento ‘nel mezzo’:
lungo il percorso qualcosa si può fare. Si sono modificate le varie regole, le
competenze, si sono poste diverse agenzie, una più dedita ai traffici illegali,
l’altra al soccorso in mare, con l’assistenza della Marina militare italiana.
Ancora, si possono aprire i porti maltesi e si potrebbero persino obbligare –
finora non è avvenuto – Francia e Spagna ad aprire i porti. Tuttavia, si tratta
di uno solo dei tre segmenti e qui non c’è moltissimo da fare, nel senso che le
persone che arrivano in mare devono essere soccorse: è un dovere imposto dal
diritto umanitario marittimo e anche il diritto del mare. Una volta soccorse le
persone, è qui che torniamo alla precedente domanda: possiamo parlare di come
può cambiare l’impostazione del nuovo Governo italiano. La vecchia impostazione
era: non possiamo far nient’altro che accettarli sul territorio, costretti dal
‘Sistema Dublino’, a tenerli almeno finché non si sia deciso se hanno diritto o
meno all’asilo. Non riusciamo a fare questo perché sono troppi? Abbiamo
problemi a farlo, a far funzionare l’accoglienza o ad avviare procedure di
rimpatrio: non è un problema di numero, ma di efficienza.
Ciò che
può fare il nuovo Governo – questa sembra la tendenza – è, sotto i due profili,
non tenerli più e non farli arrivare. Se, ad esempio, le promesse avanzate
dalla Lega in campagna elettorale dovessero tradursi in proposta concreta,
l’unica opzione fondamentalmente diversa rispetto alle precedenti direttrici
del Governo Gentiloni sarà questo tipo di azione: non li facciamo arrivare e,
nel caso in cui dobbiamo salvarli, li rimandiamo indietro.
Cosa
significa ‘non farli arrivare’?
Significa
che li facciamo morire. Oppure li riportiamo dove sono salpati – dove è possibile
o probabile che muoiano – e lo facciamo di forza: anche senza un accordo con
l’autorità legittima di uno degli Stati della sponda sud-mediterranea.
Il
Governo libico non ha soggettività sufficiente per il diritto internazionale?
Il
problema non è solo firmare un trattato, ma essere in grado di farlo
rispettare: è un problema di statualità da ricostruire… Oppure si invade il
Paese e si fa in modo che le persone non partano: tale è la proposta
neo-colonialista avanzata da CasaPound per la Libia. Teoricamente, e in termini
di opzione strategica avulsa dal contesto, si blocca la ‘minaccia’ alla fonte
(che è ‘fonte’ solo nella mente del soggetto che la percepisce): o hai uno
Stato funzionante con cui dialogare, oppure fai tu lo Stato, quindi fai una
colonia. Non sto affatto dicendo che sia una soluzione razionale.
Si
potrebbe, però, far finta di riconoscere che lo Stato libico sia un
interlocutore credibile firmando un trattato con il quale si autorizzano gli
aerei italiani ad atterrare a Tripoli o in altri centri, riportando le persone
su quel territorio. Ciò equivale, di fatto, a spostare l’acqua del mare con un
cucchiaino: nuovamente in Libia, le persone scompaiono, oppure ritornano in
mare.
Su questa
situazione, pare che il Governo che si formerà – se e quando si formerà –
tenterà di essere molto più duro: non li facciamo arrivare. Come,
effettivamente, possa riuscire a conseguire l’obiettivo è abbastanza curioso da
capire.
Quali
sono gli ostacoli principali?
Ci sono
ostacoli di fatto, di diritto internazionale e di natura etica. La Marina
militare, che utilizza armi di precisione, può, certo, fare in modo che non
arrivino le persone sul territorio. Ma la stessa Italia, l’Unione Europea e le
Nazioni Unite sono pronti ad assistere all’infrazione di principi giuridici
consolidati a livello costituzionale e internazionale? E ad accettare le
conseguenze di un’azione simile? Che tipo di strategie può utilizzare un nuovo
Governo più duro, che difende le frontiere italiane, rispetto a ciò che ha
fatto il Governo precedente? La risposta mi sfugge.
Il fatto
che Frontex sia un’agenzia privata può comportare criticità in termini di
trasparenza di interessi da parte degli attori che ne impiegano le risorse?
Frontex è
un ente giuridicamente autonomo e dotato di personalità giuridica distinta
rispetto a quella degli altri organi comunitari. Come le altre agenzie
dell’Unione, però, resta fermo che è stata istituita da un regolamento del
Consiglio, fa parte dell’Unione, e il suo board è composto da rappresentati
degli Stati membri e dalla commissione. In sostanza, quindi, è ente di diritto
pubblico europeo
Certo,
avendo autonomia finanziaria, ovviamente l’agenzia si relaziona con il settore
privato di riferimento e acquista o agevola l’acquisto di forniture militari
adeguate a quelle che ritiene siano le proprie necessità.
Se
vogliamo, il problema riguarda in genere il modello delle agenzie, sia statali
che europee, spesso criticato ma difficilmente superabile. Può ben capitare che
si privilegi un’impresa a danno di un’altra per ragioni di interesse
individuale e si possono aumentare sia la trasparenza che i profili di
incompatibilità.
Frontex
su questo è soggetta a critica, ma, come dicevo, le sue finalità e competenza
sono fissati dagli Stati, perciò la questione non incide molto sulla sua
capacità operativa.
Non è
Frontex a costruire la gestione securitaria delle migrazioni, e non si può
chiederle di agire in modo non securitario, perché è agenzia di sicurezza.
Una
questione, insomma, di ‘ragione sociale’.
È
evidente che la rappresentazione delle migrazioni come problema di sicurezza è
utile politicamente ed economicamente a moltissimi, ma Frontex ne è il
risultato, non la causa.
Più in
generale, certamente le industrie del settore, nazionali ed europee, sono fra
gli attori che partecipano alla costruzione del discorso securitario relativo
alla questione migratoria. Senza l’accettazione di questa narrazione da parte
dell’elettorato – che identifica i migranti come una ‘questione di sicurezza’ –
Frontex non esisterebbe, quantomeno nella sua forma attuale. Ci sarebbero vie
legali percorribili per entrare in Europa, processi reali di inclusione, si
metterebbe in discussione la differenziazione tra rifugiati e non (o migranti
politici ed economici, che aveva senso cinquant’anni fa, ma oggi pone problemi
enormi nella gestione del fenomeno).
Tutto
questo, oggi, sembra politicamente complicato se non impercorribile, a parte
alcuni casi particolari.
Ma è
un’altra discussione.