General

Marco Aime: «Alle radici del razzismo moderno»

Melissa
Aglietti, Lettera 43, 20 marzo 2018

Il
ritorno a un linguaggio bandito. La dimensione etnica. Il ruolo del marketing
politico della paura. E quello delle fake news. L’antropologo e
scrittore analizza il volto della xenofobia del giorno d’oggi.
L’intervista.

«Come al
naufrago si lancia una corda per aggrapparsi prima di venire portato via dalle
onde, ai naufraghi della modernità si getta il salvagente della dimensione
etnica». Marco Aime, docente di Antropologia culturale all’università di Genova
dal 1999 e famoso scrittore, descrive così la condizione dell’uomo
contemporaneo nel suo libro Contro il razzismo. Quattro ragionamenti (Einaudi
2016). Alla ricerca di un’identità etnico-culturale che possa contrappore un
“noi” a un “loro”, l’individuo cerca di esorcizzare la paura di essere alla
deriva in un mondo sempre più grande e sempre più globalizzato aggrappandosi a
nuove forme di razzismo e di tribalismo. Una dinamica che, spiega Aime a
Lettera43.it, non risparmia nemmeno l’Italia.
L’antropologo
Marco Aime.
Professore, proviamo ad andare alla radice di questa xenofobia.
Oggi si registra un sentimento diffuso di paura nei confronti
dell’altro, ma credo che in gran parte questo sia dovuto a una campagna
mediatico-politica che contribuisce ad alimentare un clima di tensione. Una
sorta di marketing politico della paura che sta riscuotendo ampio successo.
Eppure
in Italia non si registrano situazioni ad alto rischio come ad esempio nel caso
delle banlieue parigine.

Certamente la situazione italiana è molto diversa da quella francese. Ma il
verificarsi di un fenomeno migratorio in un momento di forte crisi economica e
l’irresponsabilità di una certa parte politica hanno portato a individuare
nello straniero o nel migrante la causa di una serie di problemi che invece
sono da ricercare altrove, cioè nel modello economico-finanziario capitalista,
che si è dimostrato fallimentare in quanto fautore di sperequazioni e
disuguaglianze su scala globale.
Un
atteggiamento che si ripercuote anche sulla nostra percezione dell’altro, come
dimostrato dai recenti fatti di cronaca, che sono stati accompagnati da un
vortice di fake news. Basti pensare a persone di origine straniera poste al
centro di casi di violenza sessuale mai commessi nella realtà.

All’altro di solito si attribuiscono le peggiore nefandezze. La tradizione
antica di attribuire il cannibalismo all’altro è, ad esempio, una prova di come
molto spesso si voglia leggere nel diverso ogni istinto più basso del genere
umano. Ed è proprio in questo modo che si accentua il margine di diversità tra
“noi” e “loro”.
Oggi
si è tornati a parlare pubblicamente di “razza” dopo anni di messa al bando di
questo termine. Perché?

Perché operativamente è un concetto che funziona. Pur essendo screditato sul
piano scientifico, l’idea di razza ha presa sulle masse e funziona come un dispositivo
di discriminazione. Nella Germania nazista si cercava nella scienza una
distinzione delle razze umane. Nonostante la genetica abbia smentito la loro
esistenza, si continua a pensare che ci siano delle diversità, a sostenere la
presunta inferiorità dell’altro. Questo perché il razzismo non necessita di una
legittimazione scientifica per esistere.
A una
teoria se ne può opporre un’altra. A una scelta viscerale, aprioristica, che si
fonda sul niente, non si può opporre nulla
Spesso, però, si tende catalogare “noi” e “loro” secondo blocchi culturali
incompatibili. Si può leggere come un tentativo di sostituire al termine
“razza” quello più soft di “cultura” quando si parla dell’“altro”?

Sicuramente questo aspetto c’è. Ma quando si sostituisce il termine
“cultura” a quello di “razza” stiamo nuovamente leggendo la cultura in termini
razziali, cioè pensiamo che la cultura sia un dato inamovibile e che non possa
subire alcun cambiamento nel tempo, quando invece sappiamo che è un elemento in
continua trasformazione, non un fatto biologico.
Stiamo
allora pericolosamente scivolando verso forme di tribalismo locale?

Sì, certamente si registrano forme di neotribalismo, anche se oggi stanno
ritornando echi di razzismo. Non è solo dunque rivendicazione di un’identità
storica e culturale. Oggi si torna a utilizzare il termine “razza”, seppur non
in termini scientifici. Ed è preoccupante che questo vocabolo, bandito dal
lessico politico-pubblico, sia oggi invece piuttosto sdoganato.
Una
sorta di neorazzismo, dunque.

Sì, si può parlare di una vera e propria biologia vernacolare, una sorta di
odio diffuso verso l’altro e il diverso che viene visto esclusivamente come
nemico e come causa, senza nemmeno andare a ricercare le motivazioni di
carattere storico economico che stanno invece alla base delle crisi che stiamo
affrontando e senza andare a indagare la ragione stessa delle migrazioni. Non
siamo di fronte a sentimenti di esclusione motivati da una teoria elaborata,
come nel caso della Germania nazista. Qui sono sensazioni di pancia.
E un
razzismo di “pancia” può rivelarsi persino più pericoloso.

Esatto, perché a una teoria se ne può opporre un’altra. A una scelta
viscerale, aprioristica, che si fonda sul niente, non si può opporre nulla.