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L’Egitto esporta il suo modello autoritario

Rami Khouri,
Internazionale, 13 febbraio 2018 09.52

Per buona
parte degli ultimi due secoli l’Egitto è stato l’epicentro e il banco di prova
di tutte le tendenze politiche e culturali del mondo arabo. Per questo dovremmo
essere preoccupati dagli eventi che, nell’ultimo mese, hanno strangolato,
incriminato, intimidito, detenuto o eliminato
politicamente tutti i potenziali candidati
che avrebbero potuto
seriamente sfidare il presidente-generale Abdel Fattah al Sisi alle elezioni
presidenziali di quest’anno.

Un poster
elettorale del presidente Abdel Fattah al Sisi per le strade del Cairo, gennaio
2018. (Amr Abdallah Dalsh, Reuters/Contrasto)
Dovremmo
preoccuparci perché questo modello egiziano di manipolazione, incentrata sulla
sicurezza e l’esercito, e di monopolizzazione del potere continua a diffondersi
negli altri paesi arabi.
 
I
risultati prestabiliti delle elezioni presidenziali o la spartizione di seggi
parlamentari a vantaggio dell’élite al potere sono preoccupanti principalmente
perché sottraggono alla società la possibilità di affrontare il deterioramento
delle condizioni di vita in corso in buona parte del mondo arabo. L’istruzione,
l’occupazione, l’accesso all’acqua, la sanità, la qualità dell’aria, la sicurezza
del cibo, la corruzione, la negazione dei diritti umani, la povertà, la
debolezza delle reti di protezione sociale, il lavoro sommerso, le
disuguaglianze, la mancanza di partecipazione politica e di
responsabilizzazione, l’espansione urbana fuori controllo: sono tutti aspetti
della vita quotidiana che continuano a peggiorare.
Invisibili
agli occhi del potere

La violenta eliminazione, in Egitto, di tutti gli altri seri concorrenti alla
presidenza è preoccupante anche perché porta a nuovi livelli la disumanizzazione
di milioni di donne e uomini nei paesi arabi, che spesso si trovano nudi,
bendati, ammanettati e invisibili di fronte alle loro autorità politiche.
I diritti
politici, sociali, economici e culturali di milioni di persone nel mondo arabo
sono sistematicamente schiacciati da élite egoiste che hanno seguito il copione
scritto in Egitto con il colpo di stato militare degli anni cinquanta, e che
oggi si diffonde in tutta questa martoriata regione.
Queste
élite prendono il potere con la forza, creano e manipolano gli strumenti che
influenzano e controllano la società, corrompono, creano clientele, applicano
un indottrinamento di massa e meccanismi di propaganda che indicano cosa sia
lecito leggere, ascoltare, dire o pensare. Per poi presentarsi come salvatrici
della patria con promesse populiste che sfruttano la disperazione della
popolazione.
È
importante osservare l’Egitto perché rimane il cuore e la fonte di questa
tendenza autoritaria e distruttiva di tutta la nostra regione. Ma è importante
sottolineare anche le qualità del popolo egiziano che cerca di resistere.
Qualità come l’indistruttibile saggezza, l’umanità e la gioia che sopravvivono
sotto la superficie, nonostante la violenza del potere.

Il
modello egiziano utilizza la forza bruta per stroncare qualsiasi opposizione e
ogni tentativo di libertà d’espressione
 
 

Le
elezioni presidenziali sono l’ultimo esempio di come funziona il processo di
controllo del potere. Il sistema autocratico egiziano di questi 65 anni è
descritto con grande efficacia in Egypt,
dello storico Robert Springborg, che ripercorre in modo approfondito e con
chiarezza le tradizioni e i meccanismi del deep state – lo stato profondo – che
hanno modellato l’Egitto contemporaneo, compresi alcuni capitoli sulla
presidenza, le forze armate e le forze di sicurezza, il parlamento, la società
civile e la lunga strada accidentata che attende il paese. Lo consiglio a
chiunque voglia comprendere le tendenze autoritarie presenti nella nostra regione.

La
bocciatura, da parte del governo egiziano, delle candidature presidenziali di
Ahmed Shafiq, Sami Hafez Anan, Khaled Ali e Mohamed Anwar Sadat non è stata una
sorpresa, dati i precedenti del potere del regime di Al Sisi, a partire dalla
deposizione del primo presidente egiziano legittimamente eletto, Mohamed Morsi,
nel 2013.
Quel che
stupisce è che, subito dopo la repressione
delle rivolte arabe del 2010-2011
operata dagli apparati statali e
dai loro sostenitori, orientali e occidentali, tanti altri paesi arabi abbiano
seguito il modello egiziano, che utilizza la forza bruta per stroncare
qualsiasi opposizione, oltre che ogni tentativo di libertà d’espressione.
Dunque,
oltre a quello egiziano, anche altri governi arabi impediscono ai loro
cittadini di esprimersi nella sfera pubblica e sui social network. La
criminalizzazione delle espressioni politiche e della libertà d’espressione è
l’ultimo capitolo di questa barbarie.

Milioni
di cittadini arabi crescono sapendo di non avere alcuna voce, alcun potere,
alcun diritto e forse addirittura alcun valore
 

Tanti
governi arabi, come l’Egitto, cercano di contenere la rabbia e l’umiliazione
dei loro stessi cittadini, che in molti casi vogliono semplicemente esprimere
le loro opinioni, partecipare pacificamente alle discussioni e alle decisioni
che hanno un impatto sulle loro vite, e in molti casi trovare un modo di poter
dare da mangiare ai loro figli, o di consentirgli di avere dei posti di lavoro
dignitosi in economie che sono in buona parte controllate da piccole élite di
potere.

Milioni
di cittadini arabi sono castrati politicamente, socialmente ed economicamente
alla nascita, e crescono sapendo di non avere alcuna voce, alcun potere, alcun
diritto e forse addirittura alcun valore in quanto esseri umani. Il vero cuore
di questa brutta faccenda rimane, a mio avviso, la libertà d’espressione. In
molti paesi arabi il semplice fatto di esprimere la propria opinione in
pubblico sta diventando sempre più difficile o pericoloso.
Eppure
gruppi di attivisti dei diritti umani e coraggiosi e patriottici individui
continuano a far sentire la propria voce, poiché capiscono che solo se tutti
gli arabi avranno l’opportunità di partecipare alla loro vita pubblica e alle
politiche dei loro paesi le loro società avranno una possibilità di affrontare
le grandi difficoltà che caratterizzano oggi tutti i settori della vita.

In un
mondo che continua a essere postcoloniale, è significativo leggere un editoriale
del Washington Post
sulle dure pene detentive inflitte a due
cittadini sauditi per aver cercato di creare una piccola organizzazione di
difesa dei diritti umani online, che peraltro avevano chiuso su richiesta del
governo. Commentando il contrasto con l’immagine futuristica e progressista del
paese che i suoi funzionari hanno presentato al vertice globale di Davos, il
giornale statunitense scrive : “La vecchia Arabia Saudita è ancora ben
salda. Due attivisti per i diritti umani, Mohammed al Otaibi e Abdullah al
Attawi, sono stati condannati rispettivamente a 14 e sette anni di reclusione,
per aver brevemente creato un’organizzazione di difesa dei diritti umani circa
cinque anni fa. A poco è servito che abbiano ubbidito alla richiesta del
governo di chiuderla. Il pubblico ministero ha definito la pubblicazione di
rapporti sui diritti umani, la rivelazione d’informazioni alla stampa e la
condivisione di post su Twitter come atti criminali. Le sfavillanti promesse
fatte agli investitori stranieri a Davos non possono mascherare il fatto che
l’Arabia Saudita sia, per chi osa parlare, ancora quel che era cinque anni fa:
una prigione”.