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Infrastrutture, così la Cina pratica uno strozzinaggio mondiale

Cecilia
Attanasio Ghezzi, Lettera 43, 14 marzo 2018

Il piano
finanziato da Pechino per costruire porti, ferrovie, autostrade e gasdotti in
68 Paesi sta creando enormi indebitamenti. Che Xi può sfruttare per acquisire
opere strategiche. Ma il Fmi se ne sta alla larga.

Belt and
road initiative, meglio detta «la nuova Via della seta». È il progetto che la
Cina ha lanciato nel 2013 e che segna la politica estera dell’era del
presidente Xi Jinping. In molti l’hanno definito un nuovo e più ambizioso piano
Marshall. Si tratta della costruzione di porti, ferrovie, autostrade, gasdotti
e oleodotti su un territorio che coinvolge 68 Paesi.
SFIDA
ALL’EGEMONIA AMERICANA. In sostanza Xi vuole coltivare e potenziare i legami
economici tra Cina, Russia, India, Iran, Africa e Unione europea attraverso una
nuova rete di infrastrutture che potenzialmente crea un blocco geopolitico
importante, in grado di spostare gli equilibri globali e sfidare l’egemonia del
continente americano.
OTTO
PAESI IN GRAVE DIPENDENZA. Ma un nuovo
rapporto del Centro per lo sviluppo economico
, un think tank
indipendente di Washington, ha messo in evidenza un aspetto che dovrebbe far
tremare il mondo. Tra i Paesi coinvolti si sta sviluppando «uno sfavorevole
grado di dipendenza da una Cina creditrice». In particolare ci sarebbero 23
Paesi che corrono questo rischio, di cui otto in maniera grave. Secondo il
report statunitense, infatti, Gibuti, Kirghizistan, Laos, Maldive, Mongolia,
Montenegro, Pakistan e Tajikistan sarebbero già finanziariamente dipendenti da
Pechino.
Secondo
il Financial Times solo per i progetti che sono già sulla carta saranno
necessari circa mille miliardi di euro
Ma
andiamo con ordine. Come al solito i numeri snocciolati dai cinesi sono
impressionanti. La “nuova Via della seta” coinvolge il 70% della popolazione
mondiale, il 75% delle riserve energetiche e il 55% del prodotto lordo globale.
Secondo il Financial Times solo per i progetti che sono già sulla carta saranno
necessari circa mille miliardi di euro (altre stime parlano di 8 mila miliardi,
ma sono difficili da tracciare).
FONDI
PRESTATI A VARIO TITOLO. E infatti sono già state costituite due banche che
metteranno a dura prova anche l’egemonia della Banca mondiale: la Banca per gli
investimenti nelle infrastrutture asiatiche (Aiib) e la Banca per lo sviluppo
asiatico (Adb). Sulla carta sembra tutto meraviglioso, ma soprattutto le
economie più deboli stanno usando i fondi prestati a vario titolo dalla Cina
per costruire progetti infrastrutturali strategici. E il rischio di non
riuscire a ripagare i debiti costringe i governi in questione a cercare un
accordo con le autorità cinesi: riduzione del debito in cambio della gestione
delle infrastrutture per decine di anni. E sul tavolo c’è parecchio.
Per fare
l’esempio più vicino a noi, il Montenegro sta usando i fondi cinesi per
costruire una superstrada che dal porto di Bar lo colleghi con la Serbia e
quindi con la rete autostradale dei Balcani. Il costo per la prima fase del
progetto è di quasi un miliardo di euro, un quarto del prodotto interno lordo
del Montenegro, che sarà finanziato all’85% dalla China Exim Bank. Un prestito
a 20 anni con interessi al 2%. Per ultimare il progetto sono previste altre due
fasi in cui, secondo il Fondo monetario internazionale, il Montenegro non potrà
far a meno di altri prestiti a tassi agevolati.

INFRASTRUTTURE
STRATEGICHE. Il Paese, infatti, ha già un debito che arriverà a costituire
l’83% del Pil nel 2018 e rischierebbe il default. Numeri diversi ma situazioni
simili per gli altri Paesi coinvolti. In Kirghizistan e Tajikistan si stanno
realizzando ferrovie, strade, impianti idroelettrici e gasdotti e in Mongolia
impianti idroelettrici. In Gibuti, dove la Cina sta costruendo una base
militare con tutte le infrastrutture annesse, i finanziamenti di Pechino
rappresentano già il 75% del Pil nazionale. Per capire cosa può succedere, è
utile osservare ciò che sta succedendo in Sri Lanka e Pakistan.

Il
parcheggio del nuovo porto di Gwadar, in Pakistan. AAMIR QURESHI/AFP/Getty
Images
A dicembre
2017 l’80% del porto di Hambantota a Sud dello Sri Lanka è stato ceduto per 99
anni all’azienda di stato cinese China Merchants Port Holding. Era stato finito
di costruire sette anni prima: un progetto da oltre un miliardo di euro
finanziato dai cinesi, ma che non riusciva a tamponare le perdite. A detta
dello stesso premier dello Sri Lanka, solo nel momento della cessione «abbiamo
cominciato a ripagare il debito e per Hambantota ci sarà la possibilità di
trasformarsi in uno dei maggiori porti dell’Oceano indiano».

TASSI
ALTI PER IL PAKISTAN. Per il Corridoio economico sino-pachistano, che vuole
collegare la regione più occidentale della Cina con il Mare arabico tramite il
porto di Gwadar, sono previsti investimenti per oltre 40 miliardi di euro che
la Cina finanzia per l’80% a un tasso che sembrerebbe essere molto più alto del
normale: il 5%.
RICAVI
NELLE TASCHE CINESI. Secondo l’economista locale Kaiser Bengali, solo per il
progetto di ampliamento del porto di Gwadar si può calcolare che il 91% dei
ricavi andrà nelle tasche dei cinesi, e solo il 9 in quelle pachistane. Non è
un caso che il suo Paese ha fermato la costruzione di una centrale
idroelettrica che doveva essere finanziata da aziende di stato cinesi.
IL FMI SE
NE STA ALLA LARGA. Nell’ultimo anno hanno seguito l’esempio pachistano altri
due Paesi: il Nepal e il Myanmar. In totale sono progetti per un valore di 20
miliardi. Ma secondo gli autori del report nessuno dei Paesi menzionati se la
potrà cavare da solo. Gli statunitensi auspicano un coinvolgimento maggiore di
Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. Ma per il momento le due
organizzazioni se ne stanno alla larga.