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Ucraina al bivio tra guerra e pace

9 Ottobre 2017

A Washington c’è chi spinge per fornire a Kiev armi letali, ma un’apertura di Putin e un dialogo in corso tra Russia e USA sembra promettere di meglio

La crisi ucraina, un vero e proprio braccio di ferro tra Russia e Occidente oltre che tra le due maggiori eredi della defunta Unione Sovietica, infuria e si trascina ormai da quattro anni. Più volte, in tutto questo tempo, il conflitto armato (e sia pure “ibrido” o “a bassa intensità”) cui tutto il resto fa da contorno è sembrato vicino a trascendere in qualcosa di molto più grave (si è parlato persino di rischio di una terza guerra mondiale) oppure, al contrario ma anche meno spesso, ad una svolta verso una distensione e una possibile soluzione pacifica.

Finora, però, nulla è sostanzialmente cambiato. I timori nel primo caso e le speranze nel secondo non si sono materializzati, generando un certo ritegno, a questo punto, ad attribuire troppo peso a segnali di questo o quel tipo che periodicamente continuano a richiamare l’attenzione. Adesso, tuttavia, ci si trova di fronte a qualcosa di inedito che non può essere sottovalutato o comunque ignorato. Ad un improvviso accumulo, cioè, di segnali sia negativi sia positivi oltre che di vario genere, e quindi tali nel loro insieme da suggerire che la crisi possa essere davvero più che mai vicina ad un bivio.  

La novità di maggiore risonanza è stato l’annuncio da parte di Vladimir Putin, ai primi di settembre, che la Russia proporrà in sede ONU l’invio di caschi blu nel Donbass, la regione dell’Ucraina sud-orientale dove i ribelli filorussi si fronteggiano e spesso e volentieri si scontrano con l’esercito regolare e le milizie di Kiev, provocando uno stillicidio di perdite umane (circa 10 mila, finora, tra militari e civili). Lo scopo indicato dal “nuovo zar” sarebbe quello di meglio proteggere le squadre dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) incaricate di controllare il rispetto del cessate il fuoco previsto dall’accordo plurilaterale di Minsk del 2015.

Un rispetto, finora, tutt’altro che rigoroso, non si sa per colpa di quale contendente più che dell’altro, col risultato che anche le altre parti dell’accordo, già di per sé problematiche, restano quasi del tutto bloccate. Il compito più ampio e scontato dei caschi blu sarebbe ovviamente, benchè Putin non lo abbia espressamente sottolineato, quello di interporsi tra le opposte forze, impedendo fisicamente la cronica riesplosione delle ostilità.

La novità non è di poco conto. Una proposta analoga, per quanto meno apparentemente limitativa, era stata ripetutamente lanciata in passato dal governo ucraino ma regolarmente respinta o comunque lasciata cadere proprio da Mosca, verosimilmente interessata soprattutto alle altre parti dell’accordo di Minsk, con in testa l’ampia autonomia da concedere al Donbass nell’ambito dello Stato ucraino per salvaguardarne l’integrità territoriale. Cosicchè il Cremlino si era attirato l’accusa o il sospetto di mirare in realtà a tenere Kiev sotto pressione e in qualche modo legato alla Russia piuttosto che porre davvero fine al conflitto.  

Quasi un colpo di scena, dunque, subito accolto dovunque con interesse e attenzione, benchè immancabilmente misti a perplessità e diffidenza. A Kiev non si sono nascosti il compiacimento ma neppure le riserve e le obbiezioni, comprendenti anche quella che non sarebbe accettabile una presenza russa tra i caschi blu. Mosca, com’è noto, non si considera parte belligerante, ma nella fattispecie è difficile, malgrado tutto, credere che possa pretendere di proporsi come neutrale.

Più sensatamente, il presidente ucraino, Petro Poroscenko, e i suoi collaboratori hanno altresì obiettato che il contingente dell’ONU non dovrebbe attestarsi solo lungo la linea del fronte bensì dispiegarsi in tutto il territorio in mano ai ribelli e soprattutto presso il vecchio confine con la Russia, attraverso il quale passa senza alcun controllo tutto quanto, materiali e uomini, la Russia fornisce loro. Controllo con la cui assenza Kiev giustifica il rinvio del proprio adempimento agli impegni previsti dall’ accordo di Minsk.

Poroscenko e compagni temono, d’altronde, che la semplice interposizione dei caschi blu tra le opposte forze congeli anche agli effetti politici l’attuale linea divisoria, creando in sostanza un altro fatto compiuto dopo l’annessione russa della Crimea, priva quanto si voglia, sinora, di adeguati riconoscimenti internazionali. Putin, ad ogni buon conto, li ha subito accontentati, precisando in seconda battuta che la funzione della forza di pace potrebbe estendersi come si desidera, anche se da qualche parte si fa notare che il presidente russo non ha parlato di controllo del confine.

Di tutto si potrà comunque parlare o riparlare in sede di negoziato, che a quanto pare ci sarà, se già non è in corso dietro le quinte, dal momento che tutte le parti più o meno direttamente interessate hanno sostanzialmente accolto la proposta russa come uno spunto utile per rilanciare dialogo ristagnante. Più largamente favorevole da parte dei governi europei, l’accoglienza è stata meno acritica da parte americana, ma proprio il governo di Washington è balzato ormai in primissimo piano con l’apparente intento di prendere più decisamente di petto il problema ucraino.

Un ruolo di protagonista è stato assunto al riguardo dall’ uomo cui Donald Trump (non si sa se e quanto d’accordo con il suo segretario di Stato, Rex Tillerson, col quale pare che stenti ad intendersi) ha affidato il compito di occuparsene a tempo pieno: Kurt Volker, un esperto diplomatico, già ambasciatore a Pechino sotto Barack Obama, che non tardato ad attivarsi in tutte le direzioni facendo sentire spesso la propria voce. In una di queste occasioni ha dichiarato che il processo negoziale di Minsk, che vede impegnato il cosiddetto quartetto di Normandia, ossia Russia, Ucraina, Francia e Germania, si mostra ormai inconcludente e va perciò quanto meno accompagnato da più energiche iniziative americane.

Poi ha un po’ corretto il tiro parlando di una sua “catalizzazione”, che però Washington sembra perseguire non soltanto per via diplomatica. Cresce infatti da qualche mese la pressione sul governo americano, da parte di varie personalità ed ambienti, per rompere gli indugi e mandare a Kiev armi anche “letali” e tecnologicamente avanzate benchè solo “difensive”, necessarie a loro avviso per fronteggiare adeguatamente una persistente aggressività russa.

Autorevoli esponenti dell’Amministrazione lasciano adesso trapelare che una decisione in tal senso potrebbe essere imminente, e non stupisce che ciò venga annoverato tra le possibili cause del voltafaccia di Putin sui caschi blu, interpretato magari come una mossa puramente tattica destinata a fermare quella avversaria. Diverso sarebbe invece lo scopo di altre possibili motivazioni: il costo del mantenimento nel Donbass di condizioni di vita accettabili in un contesto conflittuale, le ulteriori difficoltà che comportano le sanzioni occidentali per un’economia russa faticosamente emergente da una grave crisi, le perduranti ricadute sociali di quest’ultima in contrasto con le ingenti spese destinate a sostenere una politica estera “muscolare” sviluppatasi in risposta proprio alla crisi ucraina.

Senza contare, naturalmente, che l’apertura di Putin potrebbe essere stata determinata dal profilarsi di un’intesa, per quanto ancora da mettere a punto in ogni suo aspetto, con l’interlocutore più importante, gli USA, sempre sul contenzioso più scottante tra la Russia e lo schieramento occidentale. Putin, certo, non ha mancato di avvertire nei giorni scorsi Trump che, se davvero si azzardasse ad armare fino ai denti Kiev, farebbe correre a tutti rischi gravissimi, compreso quello di provocare reazioni da parte dei ribelli del Donbass capaci di coinvolgere anche altre regioni ucraine finora risparmiate dal conflitto. Una minaccia che suona però piuttosto riduttiva, lanciata più che altro per onore di firma oltre che per ribadire, poco credibilmente fin che si voglia, che la Russia rimane estranea al conflitto stesso e perciò può conservare, se le sarà consentito, un ruolo da paciere anziché da belligerante quale è in realtà.

L’ipotesi, pur sempre solo tale, che il Cremlino sia orientato verso la ricerca di un compromesso con Kiev, o innanzitutto con la Casa bianca, potrebbe d’altronde trovare una conferma da parte delle voci, recentemente corse, di un imminente sostituzione dei capi attuali delle due “repubbliche” filorusse del Donbass con persone più ligie a Mosca, ossia più disposte ad accettare determinati costi di un eventuale accordo di pace. Già in passato i dirigenti di Donezk e Lugansk, benchè dipendenti da Mosca in tutto e per tutto, le avevano dato del filo da torcere con atti e gesti non graditi dal grande fratello perché improntati ad un’eccessiva avventurosità.

Un’altra e più probante conferma, però, potrebbe essere pervenuta persino da Kiev, dove Poroscenko deve fare i conti con oppositori ultranazionalisti che lo accusano di scarsa fermezza nel difendere i diritti ed interessi del Paese contro il nemico esterno. Questa opposizione ha reso incandescente nei giorni scorsi l’atmosfera del parlamento ucraino ma non ha potuto impedire l’approvazione di una legge che proroga ancora di un anno la concessione dell’autonomia al Donbass, finora ritardata di fatto dai già menzionati condizionamenti. La stessa legge proclama la Russia Stato aggressore nonché occupante di una parte del territorio nazionale, ma ciò nonostante la proroga viene generalmente considerata un gesto conciliante nei confronti di Mosca perché mantiene la porta aperta ad una soluzione negoziata e inevitabilmente di compromesso, mentre gli oppositori contavano su una sua definitiva chiusura.

A questo punto, resta da vedere innanzitutto quali eventuali frutti darà il canale di comunicazione apertosi tra Russia e USA. Volker si era già incontrato nello scorso agosto, a Minsk, con uno dei principali collaboratori di Putin, Vladislav Surkov, come lui specificamente incaricato delle trattative sulla questione ucraina. I due si sono ritrovati in questi giorni a Belgrado, cioè in territorio neutrale nonché dietro invito verosimilmente sollecitato del governo serbo, per portare avanti un dialogo circondato ovviamente da molte attese. Sull’ esito del secondo appuntamento Volker è rimasto alquanto abbottonato pur definendolo utile. Surkov, invece, si è mostrato decisamente ottimista, e sarà il prossimo futuro a chiarire perché.