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Persistono fame e insicurezza in Sud Sudan

13 Settembre 2017

La peggiore carestia e le ombre di un conflitto che non vuole estinguersi

È di sabato 9 settembre la notizia dell’uccisione di Lukudu Kennedy Laki Emmanuel, autista del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Il suo convoglio stava rientrando da un’operazione di distribuzione di cibo e sementi ed è caduto in un’imboscata nello stato di Equatoria Occidentale nel nord del Sud Sudan, ai confini con la Repubblica Centrafricana e la Repubblica Democratica del Congo. Immediata è stata la sospensione di tutte le operazioni umanitarie previste in quella zona.

Mari Aftret Mortvedt, portavoce del CICR nella capitale Juba, ha dichiarato che si tratta del primo attacco serio dall’inizio della guerra civile scoppiata nel 2013 e che le attività umanitarie sono state fino ad allora sempre rispettate. La presenza della Croce Rossa viene sempre notificata alle parti in conflitto e i veicoli segnati con il simbolo dell’organizzazione

Questo attacco segue l’uccisione, a fine agosto, del giornalista americano Christopher Allen, colpito durante un pesante combattimento tra le truppe governative e i ribelli nello stato di Yei River, nel sud del paese. Dall’inizio del conflitto sono morti circa 85 operatori umanitari e, secondo l’ONU, circa 650 incidenti hanno impedito l’arrivo di aiuti tra gennaio e luglio di quest’anno. La sicurezza sta quindi peggiorando in un paese teatro della peggiore crisi alimentare mondiale non causata da catastrofi naturali ma da una lotta politica interna. Secondo il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, circa metà della popolazione – sei milioni di persone – rischiano la fame.

A questo si aggiunge l’alto numero di rifugiati, pari a circa il 12% della popolazione: almeno un milione sono ospitati in Sudan, Etiopia, Kenya, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana e la stessa cifra si conta per la sola Uganda, dove arrivano in media ogni giorno 1.800 rifugiati sud sudanesi, rendendo la quantità di aiuti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sempre più insufficiente.

Questa situazione catastrofica viene confermata da chi opera direttamente sul territorio. Latino Fuccaro di Chiusaforte in provincia di Udine è un volontario dell’Associazione Sudin onlus del capoluogo friulano e opera nella scuola del piccolo villaggio Bahrghel nello stato dei Laghi. Riferisce di convogli spesso saccheggiati prima del loro arrivo a destinazione, lungo strade tutto da inventare.

Anche l’emergenza fame è molto sentita in una zona tendenzialmente tranquilla. Con una lapidaria dichiarazione, “chi mangia tre volte a settimana è fortunato”, Fuccaro illustra chiaramente la situazione.

Il Sud Sudan, la nazione più giovane del mondo, animista ma con una discreta fetta di cristiani e una minoranza musulmana, nata nel 2011 da un referendum che ne ha sancito la secessione dal Sudan, precursore di un islam “conquistatore”, è devastato da dicembre 2013 da una terribile guerra civile.

Il presidente Salva Kiir, dell’etnia dominante dinka, aveva accusato il suo primo vicepresidente Riek Machar, di etnia Nuer, il secondo gruppo del paese, di avere tentato un colpo di stato e gli ha quindi tolto l’incarico creando forti tensioni tra le forze militari pro-governo e quelle di Machar.

Nell’agosto 2015 era stato siglato un accordo di pace, dopo forti pressioni da parte della comunità internazionale, ed era nato il governo di transizione di cui Machar era nuovamente primo vicepresidente. Nel luglio dell’anno successivo, una centinaia di miliziani ex ribelli che da mesi lamentavano il mancato ricevimento degli stipendi e il loro inquadramento nelle forze regolari hanno seminato il panico. È bastato questo a riaccendere gli scontri tra le due fazioni.

Non si tratta tuttavia di un conflitto solamente etnico, ma è un pesante gioco di forza per prendere, e soprattutto mantenere, il potere in un paese africano con grandi possibilità economiche. Il Sud Sudan è infatti il terzo giacimento petrolifero dell’Africa. Ma la carta del conflitto etnico aiuta ad ottenere più seguaci da entrambi le parti, soprattutto in tutte le zone periferiche abbandonate a se stesse.

Ieri, il sostituto di Machar, il generale Taban Deng Gai, ha sollecitato i ribelli a partecipare ad un dialogo nazionale per la pace e per la crescita del paese, precisando che le numerose ribellioni sono dovute ai “troppi” comandanti in capo in essere, mentre «l’unico che conosciamo è Sua Eccellenza, generale Salva Kiir Mayardit». Una dichiarazione molto chiara sui giochi di potere che interessano il Sud Sudan.

Gli Stati Uniti hanno proposto, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, un embargo internazionale sulle armi se non verranno registrati miglioramenti nei processi di pace, pace che, per fortuna, regna nel piccolo villaggio di Bahrghel, a maggioranza Dinka, anche se, come viene riferito da Fuccaro, “non mancano certamente dispute locali per il pascolo, il bestiame, l’acqua”, in assenza di un governatore in grado di coinvolgere i capi tribali e le altre autorità tradizionali in un dialogo. In questa situazione, è piuttosto difficile intravedere uno spiraglio e la pace per il giovane paese africano sembra ancora lontana.