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L’Italia a fianco dell’ONU

28 Settembre 2017

Posizione e ruolo di Roma, fra transizioni politiche e sfide costitutive per le Nazioni Unite. Dialogo aperto con il Prof. Luciano Tosi, dell’Università di Perugia

Nel 2017 l’Italia è tornata a essere membro non permanente del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite, una sorte condivisa da 10 membri dell’organo (escludendo gli Stati fondatori, cioè Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Stati Uniti), eletti dall’Assemblea Generale con mandato biennale. Peraltro, in ragione del voto paritario (95 a 95) del giugno 2016 e della relativa proposta avanzata in segno di solidale «unità» tra i Paesi europei, l’Italia dividerà il mandato con l’Olanda, che occuperà il seggio nel 2018, ferma restando una stretta collaborazione tra i due Paesi.  L’importanza dell’elezione e di un ruolo attivo all’interno del CdS è stata affermata come «priorità assoluta» già nel 2015 alla Farnesina, in occasione della XI Conferenza degli Ambasciatori, per poi essere ripresa come obiettivo strategico nell’ambito più esteso delle previsioni di bilancio relative al triennio 2015-2017. L’istanza si inscrive nel quadro dei negoziati intergovernativi avviati – a partire dal 2009 – in seno all’Assemblea Generale e, in forma di dibattito, dalla diplomazia internazionale, al fine di provvedere a una riforma in senso più aperto e paritario del CdS – vi accenneremo tra poco.

Nel lungo arco temporale compreso tra i bienni 1959-1960 e 2007-2006, l’Italia è stata eletta 6 volte, trovandosi quest’anno al suo settimo mandato. Ciò è dovuto a una indubbia rispondenza ai criteri di merito (cc.dd. «positive factors») richiesti per accedere alla candidatura, che ritroviamo nel solido contributo dato dall’Italia alle Nazioni Unite su più fronti. Anzitutto, un sostegno finanziario che la vede settimo contribuente, su scala mondiale, al bilancio ordinario dell’Organizzazione (con una quota che supera il 94,5 milioni di dollari); poi, una partecipazione significativa alle «operazioni di mantenimento della pace» (o «peacekeeping»), alle quali sono stati destinati, nel primo semestre dell’anno corrente, quasi 28,5 milioni di dollari. In 60 anni, per la «Pace» sono cadute sul campo 173 persone, tra civili e militari. Attualmente, l’Italia è attiva nelle missioni UNIFIL («United Nations Interim Force in Lebanon»), con l’impiego in territorio libanese di un contingente di 1100 uomini sotto il comando del Gen. di Brigata Francesco Olla, e MINUSMA («United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali»), e provvede con incarichi diplomatici e di consulenza strategica in terre di conflitto come la Siria e la Libia (ad esempio, in questo secondo caso, con il Gen. Paolo Serra, advisor in materia di sicurezza dell’Inviato speciale Martin Kobler). Inoltre, per ciò che attiene all’impegno nella gestione della crisi umanitaria connessa alla mobilità e alle rotte migratorie, dal 2016 Filippo Grandi, diplomatico attivo per 27 anni come funzionario presso le Nazioni Unite, è stato il primo italiano a essere nominato Alto Commissario per i Rifugiati all’UNHCR.

Altri positive factors sono il riconoscimento di una leadership internazionale e una consistente rappresentanza demografica, entrambi ascrivibili all’Italia come garanzia per il ruolo di Consigliere non-permanente.

Nonostante lo spessore crescente dell’agenda ONU, nel costante riconfigurarsi degli scenari geopolitici e di fronte all’urgenza di intervento negli ambiti fondamentali contemplati dal suo Statuto (pace e sicurezza tra i popoli, tutela dei diritti umani, cooperazione economica e allo sviluppo), da tempo l’Organizzazione soffre di un ‘vuoto di efficienza’ capace di riflettersi sulla sua stessa immagine, attribuito dagli analisti a un deficit di democrazia nei processi decisionali (pensiamo al potere di veto, nel CdS, di Paesi privi di un proprio ordinamento democratico), alla lentezza di tali processi e all’assenza di una forza militare autonoma dotata di funzione deterrente.

Di questa crisi istituzionale, delle istanze di riforma interna e dello stretto rapporto dell’Italia con l’ONU ci ha parlato il Prof. Luciano Tosi, Ordinario di Storia dei Trattati e Politica Internazionale presso l’Università di Perugia.


Professore, potrebbe tracciare una sintesi di come si è evoluto il ruolo dell’Italia all’interno delle Nazioni Unite, dai 10 anni di attesa (dal 1945 a tutto il 1955, anno in cui l’URSS ritira il veto) per entrare al Palazzo di Vetro, alla promozione di nuovi percorsi di politica estera?

Indubbiamente, il ruolo dell’Italia all’interno dell’ONU si è evoluto, non possiamo negarlo. Dopo quel decennio di attesa, l’Italia ha assunto un ruolo di crescente rilievo nell’ambito delle Nazioni Unite, in quanto la scelta del multilateralismo – principio cardine dell’Organizzazione – è una scelta di fondo della sua politica estera, sancita dall’Articolo 11 della nostra Costituzione. L’Italia ha investito molto nel multilateralismo: non solo nell’ONU, ma anche nella politica europea. In effetti, collaborare costantemente all’azione delle Nazioni Unite significava anche favorire il ruolo dell’Italia nel mondo, nell’ottica di un rafforzamento reciproco. Non potendo elencare tutti i momenti in cui l’azione dell’Italia si è esplicata in tale direzione, diremo che in ogni crisi internazionale l’Italia ha cercato, sostanzialmente e costantemente, di fare intervenire l’ONU. Possiamo ricordare – un esempio per tutti – la crisi mediorientale: nelle sue varie fasi, l’Italia ha sempre fatto affidamento sull’azione delle Nazioni Unite, cercando di promuoverla nei vari scacchieri internazionali. Durante la «Seconda Guerra Fredda», tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, assistiamo a diverse crisi: dall’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979), alla presa degli ostaggi in Iran (lo stesso anno), a quella degli euromissili (che durerà dal 1979 al 1983).

Stiamo parlando di un momento storico in cui ogni scelta era polarizzata in forza di un ordine mondiale bipolare e ‘spaccato’ che, dopo una recrudescenza negli anni Ottanta, si è avviato verso la dissoluzione fino a produrre una ridefinizione delle forze in gioco. Ciò è avvenuto con la caduta di strutture politiche e ideologiche e una contestuale trasformazione del sistema internazionale (a partire dalla ‘distensione’ tra USA e URSS nel 1985-86), che hanno comportato per l’italia profondi cambiamenti nel modo in cui la sua classe politica ne avrebbe concepito il ruolo sul piano dei rapporti internazionali. Riguardo alle scelte di politica estera, ciò avrebbe implicato, per il futuro, ripensamenti in direzione di un maggiore equilibrio rispetto alla forza ‘attrattiva’ dell’Alleanza atlantica nel processo di costruzione dell’Europa come Istituzione.

Tornando alla funzione rappresentativa assunta dell’Italia alle Nazioni Unite, quali sono stati i suoi fondamentali orientamenti?    

Certamente, in Assemblea Generale l’Italia si è posta sempre a favore delle aspirazioni dei Paesi del ‘Sud del Mondo’: un’opera speso difficile, in quanto essa appartiene al ‘Nord’ geopolitico ed è, comunque, alleata – ancorché non ‘allineata’ – con gli Stati Uniti, che non figurano tra gli attori più aperti alle istanze di quei Paesi. In altri termini, l’Italia si è spesa nel tentativo di una costante mediazione e apertura verso tali istanze anche perché, oggettivamente, essendo un Paese trasformatore, ha bisogno di materie prime e di mercati per le sue esportazioni. Possiamo ricordare, al riguardo, diverse battaglie: da quella per lo sviluppo economico a quella per la tutela dei diritti umani, che non è mai stata una battaglia facile.

In Consiglio di Sicurezza, noteremo altresì che l’Italia è uno dei Paesi che possono vantare il maggior numero di presenze. Quest’anno abbiamo dovuto dividere la presenza nel CdS con l’Olanda: non essendo stata raggiunta una maggioranza, si è alla fine trovata questa formula, un po’ inedita, che divide il biennio reciprocamente tra i 2 Paesi.

La battaglia che in Consiglio di Sicurezza stiamo conducendo ormai da anni , dalla metà degli anni Novanta, è quella inerente alla riforma del Consiglio stesso: riforma ispirata a una maggiore democraticità dell’organo, a una sua maggiore efficienza nonché rispondenza all’evoluzione della realtà internazionale.

Nel dibattito, ormai risalente, sull’avvertita necessità di riformare il CdS, da Mosca è giunta – a maggio del 2016 – la disponibilità all’aumento del numero dei membri permanenti, nonché all’estensione del mandato oltre i 2 anni per i membri non-permanenti del Consiglio. Qual è la posizione dell’Italia in merito a questa nuova prospettiva? 

Si tratta di un’altra ‘battaglia’ difficile che, però, l’Italia sostiene con notevoli convergenze. Il Gruppo «Uniting for Consensus», costituito nel lontano 1995 dall’Ambasciatore Paolo Fulci e di cui l’Italia ha un po’ la leadership, porta avanti l’idea di creare una terza categoria di membri, i cc.dd. «membri semi-permanenti», nell’intento di dare maggiore rappresentatività e spazio a Paesi – o a gruppi di Paesi, riferibili ad alcuni ambiti regionali – che, per determinati requisiti (popolazione, soprattutto partecipazione alle iniziative dell’ONU, finanziamenti), abbiano una maggiore presenza, più forte e garantita di quella attualmente riservata al membro non-permanente che, ogni 2 anni, ‘ruota’.

Questa battaglia è ancora in piedi. Ha subìto diverse variazioni nel corso degli anni, con aggiustamenti tesi a pervenire a una visione condivisa, benché tuttora non manchino gli ostacoli dovuti alla permanenza di un diverso peso gerarchico tra gli Stati. All’ultima assemblea, l’Italia ha riproposto questo progetto, invitando i Paesi a un nuovo forum presso Farnesina per discuterne.

Al tempo stesso, nell’ambito del CdS, l’Italia ha cercato anche di dare spazio alla rappresentanza unitaria dell’Europa: altro tema-chiave, che ha l’vista impegnata è quello volto a promuovere l’istituzione di un seggio europeo. Anche qui, però, le difficoltà sono notevoli: sono le resistenze di Francia e Gran Bretagna, membri permanenti del Consiglio. Certamente è un obiettivo sul quale l’Italia insisterà, cercando di far sì che il Paese membro che, di volta in volta, presiede la Commissione possa parlare alle Nazioni Unite a nome dell’Unione Europea.

Diciamo che oggi sono tempi duri per le Nazioni Unite, non c’è bisogno i sottolinearlo. La crisi affonda in un mondo diviso, dove prevale il nazionalismo, fiorisce il populismo e la globalizzazione, che ha prodotto diversi danni, non funziona più come sistema e produce reazioni di rigetto – parlo della globalizzazione ‘non governata’.

La crisi dell’ONU è manifesta soprattutto sul piano politico. Del resto, l’immagine di un Trump che dichiara guerra alla Corea dal suo seggio, ossia direttamente in occasione del discorso pronunciato davanti all’Assemblea Generale, è emblematica della situazione che oggi l’ONU attraversa (e diremo che anche la risposta della Corea, nella persona del suo Ministro degli Esteri, è stata all’altezza).

Se, da un lato, l’Italia cerca di favorire il ruolo delle Nazioni Unite in un momento di forte crisi politica capace di inficiare il loro funzionamento, questa incapacità non può, tuttavia, addebitarsi all’ONU: occorre sempre avere ben chiaro il fatto che l’ONU non è un organismo sovranazionale legittimato a imporre le sue soluzioni, ma un organismo fatto di Stati, nel quale si cerca di arrivare a una mediazione, a una situazione di ‘incontro’.

Purtroppo in momenti come quello attuale, in cui prevale la spinta nazionalistica, tutto questo si complica. Quindi l’ONU cercherà di muoversi con maggiore forza ed impegno su altri terreni: la cooperazione allo sviluppo, la cooperazione economica, gli accordi sul clima , etc. In altre parole: di essere – ricorrendo a un’immagine n po’ abusata – la ‘Croce Rossa’ dell’umanità, muovendosi su un terreno in cui ci sono grosse ferite da sanare. Anche su questo punto, indubbiamente l’Italia è tra i maggiori contributori delle NU, oltreché tra i maggiori contributori di uomini : pensiamo alle missioni di peacekeeping.

Professor Tosi, si può prevedere un ruolo più attivo dell’ONU nella gestione delle crisi internazionali? Spesso si rimprovera all’Organizzazione una inerzia ad agire. È d’accordo su questo ?

Ribadisco il mio pensiero: in un momento in cui prevale il nazionalismo, che, come vediamo, sta mettendo in crisi non soltanto le Nazioni Unite, ma la stessa Unione Europea, non si tratta di un problema di ‘inerzia’ ad agire : l’ONU, come ho detto, è un organismo che si basa sugli Stati. Può favorire la loro azione, ma a condizione che questi siano convinti che, muovendosi insieme, si troveranno soluzioni ai problemi. Se, invece, prevale la regola del «ciascuno contro tutti», allora è chiaro che in questa situazione l’ONU non avrà margine di manovra, se non cercando di sanare le ferite prodotte da queste situazioni di scontro.

A cosa allude esattamente?

Principalmente, alle situazioni di sottosviluppo e di guerre intestine in corso, soprattutto in Africa, capaci di  creare povertà, gravi violazioni di diritti, flussi migratori. Non stiamo vivendo un momento in cui si può dire che l’ONU abbia un ruolo preponderante nella gestione degli affari internazionali. Indubbiamente, l’Italia ha sottolineato, anche con il Governo Gentiloni, la sua fiducia nelle NU. Essa persegue i propri interessi nazionali, però cerca di coniugarli con istanze multilaterali, di trovare sempre un punto di equilibrio tra quella che è la tutela dell’interesse nazionale e la tutela della comunità internazionale: vale a dire, non perseguire il proprio interesse contro qualcuno, bensì insieme agli altri. Questo è un elemento centrale nella politica estera italiana, che assicura l’appoggio a tutte le iniziative societarie dirette a stabilizzare le crisi, soprattutto con il peacekeeping.

Come è cambiata questa attività?

L’Italia appoggia un’azione di ripensamento del peacekeeping che è attualmente avviata: l’ ultima assemblea ha varato il progetto di una revisione delle modalità di sviluppo delle operazioni di peacekeeping, ma al tempo stesso si vogliono tagliare i fondi – un motivo di scontro ulteriore.

Il mantenimento della pace, nella sua evoluzione, è diventato anche ‘civile’, in una certa misura, ossia non più affidato unicamente alle FF militari…

Infatti, l’Italia ha ad esempio sostenuto la necessità che siano sempre più presenti le donne nelle operazioni di peacekeeping per il ruolo di mediazione e supporto psicologico che esse possono svolgere in situazioni di conflitto e guerre civili. Il nostro Paese è favorevole a questo mutamento di modalità di intervento dell’ONU. Al tempo stesso, nell’ambito dell’azione contro la proliferazione nucleare, ci siamo opposti alla revisione del trattato con l’Iran e ci opponiamo allo sviluppo dell’arma nucleare in Corea. Siamo impegnati militarmente per porre termine alla guerra civile in Iraq e abbiamo mandato forze sul posto per la formazione della polizie locali. Esistono, pertanto, una serie di terreni sui cui poteremmo vedere come l’Italia resti sempre chiaramente a fianco delle Nazioni Unite. Nello Yemen, ad esempio, si cerca di favorire una stabilizzazione mediante la cooperazione allo sviluppo, certamente con fondi non proprio ingenti, ma che hanno ripreso a scorrere: dopo la riforma della cooperazione allo sviluppo, l’Italia si è di nuovo rimessa ‘in carreggiata’.

Ci sono, però anche casi di contraddizione negli effetti. Pensando proprio allo Yemen: ossia, alla cooperazione allo sviluppo che provvediamo da un lato e, contemporaneamente, alla fornitura di armi all’Arabia Saudita (che nello Yemen combatte la ‘sua’ guerra personale) qual «Paese amico».

Si tratta di un altro nodo ricorrente: l’azione della vendita di armi è un problema grosso, che accomuna l’Italia agli altri Paesi industrializzati. Certamente questo attenua gli sforzi che poi l’Italia compie per ridurre i conflitti: la tutela dei diritti umani è un altro terreno scivoloso, che passa troppo spesso in secondo piano (pensiamo, per fare un altro esempio, alla democrazia di facciata della Repubblica cinese e ai sui effetti diretti sulla popolazione).