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I 18 mesi che segneranno il futuro dell’Unione europea

13 Settembre 2017

A marzo 2019, in Romania, i Paesi membri dovranno scegliere: andare avanti insieme o in una Ue a più velocità. In mezzo, la riforma di Dublino e le discussioni sui bond di Draghi e sul ministro dell’Eurozona.

L’appuntamento è per il 30 marzo del 2019, a Sibiu, in Romania. E per un presidente della Commissione Ue accusato di non avere un dialogo con l’Est Europa, di rifiutare financo di recarsi nelle sue capitali, è già un messaggio chiarissimo. In questa città transilvana, capitale della cultura europea ormai dieci anni fa, all’alba delle tante crisi che hanno investito l’Unione, secondo il programma inviato da Jean-Claude Juncker ai leader delle istituzioni europee, i capi di Stato e di governo dovrebbero trovarsi a decidere il futuro.
Nel momento in cui la Gran Bretagna uscirà, gli altri 27 Paesi sceglieranno se procedere insieme in tutti i campi o se dare inizio a quella che viene chiamata Europa a più velocità, con alcuni Stati che decidono di fermarsi allo status quo, di non andare avanti. Sembrano questioni teoriche, sono invece molto pragmatiche. Hanno a che fare con chi controlla i bilanci, con la mobilità del lavoro, con le decisioni di politica estera e con quelle sulle tasse che paghiamo.

La possibilità che alcuni Paesi procedano da soli è stata ampiamente prevista persino nel giorno della dichiarazione di Roma. È la prospettiva più probabile, ora che gli idealismi sono finiti. Ma il presidente della Commissione nello scenario personale che ha descritto di fronte agli eurodeputati l’ha rifiutata.
Per lui non ci dovrebbe essere un parlamento dell’Eurozona, come ipotizzato da Emmanuel Macron, per lui la Polonia adotterà l’euro. E anche il presidente del Consiglio e della Commissione dovrebbero essere uniti in una sola figura: il presidente Ue. Si è mosso in maniera ostinata e contraria richiamando il Ppe a sostenere l’idea italiana di liste transazionali per quei deputati che occuperanno il posto dei britannici, una prospettiva finora considerata illusoria.

UN BIVIO DOPO L’ALTRO. «L’Europa va da Digo a Varna, dalla Spagna alla Bulgaria» e «deve respirare con il polmone dell’Ovest e anche dell’Est». Un messaggio, quello di tenere uniti Est e Ovest, Nord e Sud, a cui ben pochi credono. Ma che Juncker ha voluto sottolineare una volta di più, chiedendo l’immediata entrata in Schengen di Romania e Bulgaria. Di tempo da perdere non ce n’è più. «Non dobbiamo peccare di prudenza», ha spiegato, «dobbiamo costruire la casa europea ora che il tempo non è così cattivo, prima che la tempesta torni, perché tornerà». Da ora in poi, dunque, e per i prossimi 18 mesi, i capi di Stato e di governo dovrebbero scegliere cosa ne sarà dell’unione monetaria, dell’Europa sociale e di quella Difesa, dello stesso bilancio dell’Ue: un percorso pieno di rischi e di possibilità.

Il primo passo passo sarà il 17 novembre a Goteborg: si parlerà dell’Europa sociale, con in agenda la revisione della direttiva sui lavoratori distaccati, la creazione di un’autorità europea sul lavoro, la progettazione di un numero unico di sicurezza sociale in tutta Europa. A inizio dicembre, poi, la Commissione presenterà le sue proposte per la trasformazione del meccanismo di stabilità in un fondo monetario europeo. E soprattutto per la creazione di una linea di bilancio Ue destinata all’assistenza dei Paesi nelle riforme strutturali, ad accompagnare gli Stati che aspirano ad entrare nell’Unione, al sostegno dell’Unione bancaria e in generale alla stabilità dell’area euro. Sarà anche lanciata la proposta di un vero e proprio ministro dell’Economia che pure dovrebbe esser finalizzata al 2025.

TRE PASSAGGI CLOU. Ma soprattutto ci saranno tre passaggi significativi per capire se si ricomporrà la frattura tra Nord e Sud Europa: l’integrazione del Fiscal compact nei trattati, tenendo conto, scrive nella sua proposta Juncker, della «appropriata flessibilità già riconosciuta dalla Commissione», il completamento dell’Unione bancaria, compreso lo schema di garanzia dei depositi, e una cornice per sviluppare titoli collegati alle obbligazioni statali che possano aiutare le banche a diversificare i loro portafoglio. Si tratta del progetto a cui sta lavorando Mario Draghi e che vedrebbe l’impacchettamento di bond dei diversi Stati insieme per armonizzare i rischi.
A settembre, poi, Juncker vorrebbe la discussione sulla possibilità di passare dal voto all’unanimità a quello a maggioranza per le questioni di politica estera e per quelle del mercato interno, incluse le misure sociali e fiscali. L’orizzonte anche qui è al 2025, ma in questi passaggi si potrà capire quanto l’Ue è pronta a procedere. Sulla carta sarebbe una rivoluzione: vorrebbe dire una vera politica estera europea, una vera politica fiscale unitaria, un altro mondo.

Intanto, e ben più in concreto, ci aspettano la nascita di un’Iva a livello europeo e il rilancio della Common consolidated corportate tax base: quella che porterà le multinazionali a dover dichiarare i loro profitti per ogni Paese in cui operano, un passo vero e reale seppure con dei limiti nella lotta all’elusione fiscale. Mentre della web tax per i gignate del digitale si parlerà nell’Ecofin di questa settimana a Tallin. Già quest’anno si andrà verso l’unione dei mercati finanziari con una maggiore sorveglianza unificata.

ACCORDI COMMERCIALI CON L’ASIA. Entro il 2018, poi, verranno finalizzati gli accordi commerciali con Giappone, Singapore e Vietnam, si proseguiranno le trattative con Messico e Mercosur, si apriranno i negoziati con Australia e Nuova Zelanda. L’Unione prende le sue contromisure nell’era dell’isolazionismo di Trump. C’è l’agenda dell’antiterrorismo e del digitale, su cui la Commissione punta molto e anche rapidamente. A ottobre ci sarà anche il dibattito sullo Stato di diritto, un modo per rendere probabilmente più efficace l’intervento di un’Unione che davanti alle storture messe in campo dalla Polonia si è ritrovata con voce forte e mani bloccate. E capire se le divisioni Est-Ovest sono superabili o meno. Ma lo scoglio vero su cui potrebbero riacuirsi ancora una volta le divisioni è quello della politiche sui migranti. Dove l’Europa è franata rovinosamente e per tenersi unita si è venduta l’anima al diavolo.

IL NODO DELLE VIE LEGALI D’IMMIGRAZIONE. Da parte sua Juncker ha omaggiato l’Italia. L’Italia che dopo aver fatto quello che poteva ha scelto di stringere un patto con la Libia, una nazione da cui arrivano – parole di Juncker – «notizie che ci spaventano». Se le notizie spaventose continueranno ad arrivare dovranno deciderlo i Paesi europei: del sistema attuale potrebbe essere rivisto tutto o nulla. Procedura di asilo, caratteristiche che permettono di accedere al sistema di asilo e modalità dei ricollocamenti. Juncker ha chiesto piùù rimpatri e aperto alle vie legali di immigrazione. Compresi quei corridoi umanitari invocati da anni e che, secondo l’Alto rappresentante per i diritti umani dell’Onu Filippo Grandi, dovrebbero permettere l’accesso in Ue di 40 mila rifugiati. La riforma dovrebbe essere varata entro il 2018. Sarà uno dei tanti tornanti che da qui a marzo 2019 farà capire quale Europa hanno scelto i capi di Stato e di governo: se saranno semplici lobbisti dei loro interessi o ambiranno a qualcosa di più.