General

Usa e Israele uniti a sostegno della guerriglia siriana

10 Agosto 2017

La stretta collaborazione tra Washington e Tel Aviv in funzione anti-Assad

La sospensione, da parte di Donald Trump, del programma attraverso il quale la Cia sosteneva i “ribelli moderati” siriani ha recentemente indotto la direzione del ‘Financial Times‘ ad inviare propri reporter in Siria con lo scopo di sondare gli umori del fronte armato che dal 2011 combatter per rovesciare il governo di Bashar al-Assad. È emerso che gli Usa non si limitavano ad armare i membri di alcuni gruppi ribelli considerati ideologicamente “presentabili”, ma arrivavano a coordinarsi con essi facendo incontrare gli operativi della Cia con alcuni leader della rivolta presso un’apposita struttura messa in piedi dall’agenzia. Le faida interna alla composita galassia ribelle scoppiata pochi mesi dopo l’inizio delle ostilità avrebbe tuttavia complicato notevolmente la consegna di attrezzature militari ai gruppi operativi preselezionati dall’intelligence Usa, e numerose partite di armi sarebbero così finite nelle mani delle forze jihadiste connesse ad al-Qaeda, tra le quali spicca il Fronte al-Nusra. Le testimonianze raccolte sul campo dall’inviato del prestigioso quotidiano londinese hanno inoltre rivelato che la Cia stipendiava regolarmente numerose milizie anti-assadiste, di concerto con la Turchia e i Paesi del Golfo Persico asserragliati dietro Arabia Saudita e Qatar. Secondo il ‘New York Times‘, soltanto gli Usa avrebbero ‘investito’ nel piano di rovesciamento di Assad non meno di un miliardo di dollari a partire dal 2013; si tratta di una delle operazioni coperte più costose dai tempi in cui la Cia si dedicò al supporto dei mujaheddin in lotta contro l’Armata Rossa in Afghanistan.

Alcune settimane fa, il ‘Wall Street Journal‘ aveva inoltre scoperto che un rapporto di collaborazione analogo era stato istituito tra i gruppi ribelli attivi a ridosso di Damasco e Israele. Abu Suhaib,  comandante del gruppo Fursan al-Joulan, ha infatti candidamente ammesso che gli oltre 400 membri della sua milizia ricevevano regolarmente un salario mensile di circa 5.000 dollari, conformemente ad un accordo in base al quale Tel Aviv avrebbe provveduto a stipendiare i  combattenti agli ordini di Abu Suhaib in cambio di sistematici attacchi che questi ultimi avrebbero dovuto continuare a portare contro l’esercito siriano. «Israele ci sostiene in modo eroico, non saremmo sopravvissuti senza il suo aiuto», ha confidato al giornale statunitense Moatasem al Golani, altro miliziano appartenente a Fursan al-Joulan.

La notizia non fa altro che avvalorare la tesi che secondo cui il governo di Tel Aviv sarebbe da tempo impegnato a sostenere i gruppi ribelli con lo scopo di contrastare Hezbollah e creare una zona-cuscinetto lungo in confine che divide Israele dalla Siria, come riportato dal ‘Jerusalem Post’ mediante un’inchiesta fondata su un rapporto redatto dalle forze di interposizione dell’Onu stanziate nel Golan. Il documento dimostra in maniera dettagliata come l’esercito israeliano abbia mantenuto contatti regolari con membri di al-Nusra e dei gruppi poi confluiti in Da’ish quantomeno a partire dal maggio 2013. Un giovane soldato israeliano di origine drusa, il diciannovenne Hillah Chalabi, ha confermato le accuse formulate dalle forze internazionali di peacekeeping di stanza nelle alture del Golan, denunciando i contatti tra l’esercito israeliano e il fronte al-Nusra, con rifornimenti di armi ai ribelli e accoglienza dei mujaheddin feriti negli ospedali da campo allestiti dall’esercito di Tel Aviv. Sulla stessa lunghezza d’onda è apparsa un’indagine dell’emittente iraniana ‘Fars News’, che basandosi su rivelazioni fornite da una fonte interna ai servizi segreti iracheni ha parlato della cattura del colonnello dell’esercito israeliano Yusi Oulen Shahak, arrestato mentre si trovava in compagnia di numerosi membri del Golani, battaglione paramilitare inquadrato nell’esercito dello “Stato Islamico” operante nel governatorato di Salahuddin.

Tali contatti non destano particolare stupore, se si considera che nel gennaio 2016 il ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon è giunto a dichiarare pubblicamente che «in Siria, se mi trovo costretto a scegliere tra l’Iran e lo “Stato Islamico”, io scelgo lo “Stato Islamico”. Non ha le capacità che ha l’Iran». Lo stesso Efraim Inba, analista israeliano nonché direttore del think-tank Begin-Sadat (centro studi israeliano sponsorizzato dalla Nato), ha rincarato la dose, affermando che «il disgusto occidentale per la brutalità di Da’ish non dovrebbe offuscare la chiarezza strategica. […]. La stabilità non è un valore in sé e per sé. È desiderabile solo se serve ai nostri interessi. […] La continua esistenza dello “Stato Islamico” si presta a determinate finalità strategiche […], e la sua sconfitta non solo incoraggerebbe l’egemonia iraniana nella regione, ma rafforzerebbe anche il ruolo della Russia e prolungherebbe la tirannia di Assad […] Gli Usa non sembrano comprendere il fatto che Da’ish possa rivelarsi uno strumento utile a indebolire le ambizioni di Teheran».