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India – Pakistan, 70 anni di indipendenza e di ‘guerra’

16 Agosto 2017

Dopo oltre mezzo secolo dall’autonomia politica e dalla separazione del subcontinente, i rapporti fra i due Paesi rimangono controversi

Settant’anni non sono abbastanza per appianare divergenze culturali maturate nel corso di secoli. Fra il 14 e il 15 agosto del 1947, l’India si affrancava definitivamente dall’Impero inglese, e subito dopo perdeva parte del suo territorio, che sarebbe diventato l’odierno Pakistan. Eventi storici che sono stati ricordati e celebrati dai due Paesi, ma che hanno portato conseguenze atroci e conflitti che ancora oggi restano un nervo scoperto nei difficili territori di confine e nei rapporti fra i due Paesi.

L’indipendenza dell’India era un concetto che già si formava nella mente dei cittadini e politici del Paese ben prima dell’effettiva realizzazione, così come era un’eventualità che lo stesso impero della regina non poteva che tenere in considerazione. Il fiore all’occhiello del colonialismo britannico non era più in grado di garantire un futuro roseo agli inglesi, a causa dei forti movimenti di protesta del popolo indiano – uno fra tutti, quello guidato dal Mahatma Gandhi – desiderosi di riacquistare pieni diritti nella loro patria natale.

Già negli anni precedenti il 1940, il movimento nazionalista, che faceva capo al Congresso Nazionale Indiano, spingeva per cacciare quei colonizzatori da occidente che si avvalevano delle ricchezze dell’India senza riuscire a garantire un adeguato sviluppo economico e sociale alla sua popolazione. La campagna nota come Quit India, lanciata in seguito alla decisione inglese di coinvolgere l’India nella Seconda Guerra Mondiale, manifestava questo desiderio della popolazione, e gli inglesi non poterono più voltare lo sguardo dall’altra parte.

La subordinazione al potere degli inglesi non nascondeva certo quelle che erano le partizioni culturali interne del subcontinente indiano. Da una parte gli indù, dall’altra i musulmani, oltre una serie di minoritarie rappresentanze religiose, come i sikh e i buddisti. Lo stesso moto di protesta guidato dal Congresso Nazionale Indiano era visto con sospetto dalla comunità musulmana. La cacciata degli inglesi poteva essere il momento per vedere affermata, a livello nazionale, la supremazia numerica degli indù, che rappresentavano circa l’80 % dell’intera popolazione, a scapito della minoranza, seppur consistente, di credenti musulmani.

In questo scenario politico-culturale, con i movimenti indipendentisti che acquisivano coscienza, e lo scoppio della Guerra Mondiale nel 1939, la questione indiana assumeva nuove sfumature. Se da una parte gli indipendentisti si rifiutavano di prestare i loro uomini per combattere, dall’altra, la minoranza musulmana, preoccupata di essere schiacciata nel caso di un ritiro inglese dall’India, volle assicurarsi precise tutele politiche, offrendo, in cambio, il loro aiuto agli inglesi nel corso della guerra. Furono anni di accese tensioni e conflitti su ogni fronte. Lo stesso Gandhi e altri leader del Congresso, tra cui Jawaharlal Nehru, vennero tenuti in prigionia dagli inglesi fino al 1945.

Con la fine della guerra e i cambiamenti sulla scacchiera politica mondiale che ne seguirono, anche l’India riuscì ad arrivare ad un punto di svolta. Il conflitto mondiale aveva dissanguato le finanze inglesi, e continuare ad esercitare il controllo su un territorio così vasto com’era quello indiano non era più una soluzione percorribile. In special modo, dovendo tener conto del diffuso malcontento della popolazione indiana verso i suoi colonizzatori. La decisione di Londra non poteva che essere una sola: lasciare definitivamente l’India, ed assicurarle il processo di transizione verso un nuovo tipo di Governo.

Nel marzo 1947 fu mandato a Dehli un nuovo governatore da Londra, Lord Louis Mountbatten, con il compito di sancire definitivamente la fine del Raj inglese. Venne indicata come strada quella della separazione del Paese, determinata dalla prevalenza di una comunità religiosa piuttosto che un’altra. Sebbene la decisione finale venne posta all’attenzione e fatta discutere alle rappresentanze politiche indiane presenti, non sembrò esserci altra alternativa alla separazione in due Stati. Del resto, l’idea di un Pakistan musulmano circolava già da anni nel dibattimento politico del Paese.

Era ancora il 1940 quando la Lega Musulmana, partito di rappresentanza della minoranza religiosa, aveva lanciato la proposta di separare il subcontinente in due Stati e affrancare così il popolo musulmano dal potere degli indù. Una decisione che, benché appoggiata da parte dei fedeli islamici, non avrebbe avuto tuttavia il consenso della loro maggioranza, restia ad abbandonare le proprie terre per il sogno di uno Stato islamico.

La confusione che aveva vissuto l’India fino a quel momento, tuttavia, non era niente a confronto di quello che sarebbe successo in seguito alla separazione. Dopo lo smantellamento dei centri di controllo britannici e la suddivisione del subcontinente in India e Pakistan, si calcolò un esodo di circa 14 milioni di persone, fra musulmani diretti verso i territori del nord ovest, e indù nelle nuove terre del Pakistan costretti a fare i bagagli. La migrazione fu tutt’altro che indolore. La spirale di violenza che seguì irrazionalmente quel periodo storico portò ad un massacro di civili che viene stimato fra le 200 mila e i due milioni di persone. Un vero e proprio eccidio di cui si resero protagoniste entrambe le fazioni, sebbene la motivazione ideologica sembra essere stata la più debole.

Si uccideva per soldi, hanno raccontato i sopravvissuti a quel dramma. Intere famiglie furono trucidate per intascarsi i bottini che portavano, altri furono assassinati per vendetta. In quegli anni si racconta dei cosiddetti ‘treni di sangue’, che trasportavano rifugiati da un neonato Paese all’altro, e che arrivavano grondanti del sangue dei cadaveri al loro interno, massacrati dalle bande di strada.

Se, prima della separazione, inglesi, indù e musulmani auspicavano la nascita di due Nazioni amiche, sul modello di Canada e Stati Uniti, considerando la cultura comune ed i rapporti che avevano unito le due realtà fino ad allora, nessuno avrebbe immaginato un epilogo così catastrofico. La scia di sangue e morti che lasciò la nascita del Pakistan ed il suo affrancamento dall’India scavò un solco così profondo fra i due Paesi che, ancora oggi, India e Pakistan faticano a vedersi come ‘buoni vicini’.

Un caso eclatante di questo contraddittorio rapporto è rimasto il Kashmir, territorio al confine nord fra i due Stati, e sottoposto anche al controllo cinese. Oggi, l’area è suddivisa in tre diverse aree di influenza e contemporaneamente reclamata dai tre attori in gioco, che ne rivendicano la paternità e l’amministrazione. La situazione incerta nel Kashmir portò, già pochi anni dopo l’indipendenza, ad un contesto di violenza diffusa, con le forze pakistane che reclamarono fin da subito il territorio come loro, mentre il maharaja indù, che allora governava, decideva di porre l’area sotto l’influenza dell’India.

A risolvere la questione, nel 1949, intervennero le Nazioni Unite, che suddivisero l’area fra le due Nazioni, per un terzo affidandola al Pakistan e per due terzi all’India. Una condizione di incertezza che ancora oggi è la cartina tornasole di rapporti diplomatici difficili fra i due Paesi. Le giovani popolazioni del Kashmir, in un moto di orgoglio e volontà di indipendenza, si sono avvicinate agli ideali di Al Qaeda, e la complicata convivenza di diverse culture ha fatto sprofondare la regione in una guerra civile. Sebbene oggi, nel territorio, si respiri un’inconsueta aria di tranquillità, non si è allontanato quel clima di tensione dovuto alla consapevolezza di una fragilità intrinseca che non può garantire una pace duratura.

Nel contesto attuale dei rapporti fra India e Pakistan, oggi si aggiunge il nuovo corso instaurato dal Primo Ministro indiano Narendra Modi, che, promuovendo un ritorno a politiche nazionaliste, ha attirato su di sé le contestazioni di alleati e avversari, preoccupati dall’eccessivo isolamento cui sta andando incontro l’India. Una direzione in netto contrasto con quello di cui, secondo gli oppositori di Modi, avrebbe bisogno l’India, cioé una politica estera più inclusiva che possa sanare ferite aperte, ormai, da troppo tempo. La tensione fra i due Paesi è invece palese. Entrambi si accusano di violenza reciproca e faticano ad ammettere le proprie colpe. Uno degli ultimi episodi che ha fatto stridere i Governi di Dehli e Islamabad è stato quanto accaduto nel settembre 2016, quando diciotto soldati indiani sono stati uccisi ad Uri, nel Kashmir indiano.

Un attacco, secondo il Governo indiano, commesso dal gruppo fondamentalista Jaish-e-Mohammed, cellula terrorista con base in Pakistan. Islamabad ha respinto al mittente le accuse, sostenendo come le parole del Governo indiano siano volte a nascondere i soprusi perpetuati dalle milizie indiane proprio nel conteso territorio del Kashmir. Alcuni corrispondenti dai territori di India e Pakistan hanno messo il punto proprio sulla nuova politica di Modi e sulla ‘sete di sangue’ che l’India sta mostrando attraverso la repressione violenta nei territori di confine. Un atteggiamento da abbandonare in un’ottica di distensione diplomatica fra i due Paesi, che non potrà portare altro se non nuovi attacchi terroristici ed una atmosfera di tensione sempre più preoccupante.

La linea di Modi non sembra tuttavia sposarsi con quanto chiedono i suoi oppositori e, nonostante un dialogo di pace sia la soluzione auspicata dai due contendenti, nessuno è deciso a fare un passo indietro e porre un freno alla violenza delle forze armate. Una possibile soluzione, sostengono gli analisti, potrà trovarsi solamente quando il Governo indiano riuscirà a smorzare le pressioni interne dei suoi movimenti nazionalisti, e il Pakistan allenterà l’influenza del proprio apparato militare nelle decisioni politiche e diplomatiche.