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Estremo Oriente: lo Stato Islamico avanza?

4 Luglio 2017

C’è l’eventualità che il fenomeno IS si estenda in Estremo Oriente? Ne parliamo con Nicola Fedeli, analista dell’Alpha Institute of Geopolitics and Intelligence

L’avanzata dello Stato Islamico nelle terre mediorientali sembra ormai essersi arrestata e la forza territoriale dell’autoproclamatosi Califfato sembra scemare lì dove è incominciato il suo sviluppo. Gli sforzi per recuperare terreno continuano; recentemente, le milizie irachene si sono anche impegnate nel lancio di un’operazione militare nella zona orientale dell’Iraq.

La controffensiva su Mosul, poi, continua incessante dopo otto lunghi mesi; secondo gli ultimi sviluppi, le forze armate irachene hanno sottratto ai jihadisti un altro distretto e una moschea nella città vecchia. Ma la battaglia non sembra essere ancora finita: ancora parecchi i miliziani presenti in città, nascosti nelle abitazioni vicino al fiume Tigri, nell’area della città vecchia ancora in mano al Califfato. Dal fronte, il primo ministro iracheno Haider al Abadi ha annunciato la vittoria su Mosul, promettendo di inseguire e scovare ogni miliziano dell’IS in fuga. Secondo la polizia federale, sono stati liberati 21.220 civili e 190 quartieri per un totale di 2604 chilometri quadrati.

Ma forse la riconquista dei territori del Medio Oriente non significa davvero che il pericolo è scampato. Lo Stato Islamico con la sua attraente e poderosa retorica sta attecchendo in altri luoghi, ben lontani da quelli che lo hanno visto nascere e fortificarsi. L’Estremo Oriente. Balza agli occhi il caso delle Filippine che nell’ultimo mese è al centro del ciclone: l’isola di Marawi è scossa dagli scontri tra le forze governative e i gruppi vicini all’Isis, il gruppo Maute e il Fronte Moro. Il primo, fondato dai fratelli Abdullah e Omar Maute, è un movimento paramilitare terroristico che ha dichiaratamente prestato fedeltà allo Stato Islamico; il secondo, condivide con questo la medesima volontà.

Le conseguenze del radicamento di questo estremismo non potevano non riflettersi sulla linea dura intrapresa dal presidente Rodrigo Duterte, peraltro, natio dell’isola, una linea che assomiglia già molto ad una guerra. Alla devastazione delle strade e delle case, corrisponde una tremenda ritorsione sui civili, bersagliati, presi ad ostaggio e come sempre, vittime della violenza dei militanti o dei colpi lanciati dalle forze governative. Più di 100 i morti tra i civili, oltre 350 le vittime tra i combattenti e tantissimi gli sfollati.

La preoccupazione al momento è che il fermento intorno a questo radicalismo possa contagiare anche altri Paesi come l’Indonesia o la Malesia, democrazie in cui a primeggiare è proprio la religione musulmana. Si ritiene che l’area indonesiana sia già pervasa da numerose cellule terroristiche e sia qui che in Malesia, molti arresti siano già avvenuti per il sospetto di affiliazione all’Isis. A rendere il quadro ancora più preoccupante è il fatto che proprio l’Indonesia sarebbe la meta dei combattenti in fuga da Marawi. Resta da capire se queste cellule siano affiliate allo Stato Islamico come semplici simpatizzanti o se sia la mano dell’IS a muovere tutto il marchingegno.

Nicola Fedeli, analista dell’Alpha Institute of Geopolitics and Intelligence, ci ha aiutato a fare il quadro della situazione in queste aree.


Quali prospettive ci sono ad oggi nell’Estremo Oriente riguardo l’avanzata dell’Isis?

Per quanto riguarda il Sud-est asiatico e l’Estremo Oriente, più che un’avanzata dello Stato Islamico, è una situazione un po’ diversa. Diciamo che c’è un aumento del pericolo relativo alla presenza dell’IS in quelle zone, nelle Filippine ma anche in Malesia, Bangladesh, Indonesia e Cina che è un importante snodo per l’estremismo islamico. E’ una tipologia di presenza molto diversa secondo me, perché, questi Paesi sono stati molto più esportatori di foreign fighters, piuttosto che importatori. Marawi, nel sud delle Filippine, è stata conquistata un mese fa da un numero abbastanza consistente di miliziani legati allo Stato Islamico; sono stati rinvenuti i corpi e almeno quello di un combattente è di origine marocchina, quindi, foreign fighters pochissimi, ma cominciano ad esserci anche nel Sud-est asiatico. Non sembra ancora essere un fenomeno massiccio anche perché spostarsi tra la Siria e l’Iraq è certamente molto più facile che spostarsi in un arcipelago, quindi, da quel punto di vista, un maggiore controllo dei confini e anche un’assenza di finanziatori nell’area costituiscono degli aspetti che rendono la situazione molto diversa. Poi c’è l’aspetto socio-politico da considerare; nella maggioranza di questi Paesi, comunque, il radicalismo islamico sta un po’ attecchendo e questo ha origine da situazioni interne al Paese. Prendiamo ad esempio le Filippine, in cui il sud del Paese è una zona a maggioranza musulmana in un Paese a maggioranza cattolica ed è anche una delle zone più povere del Paese; vediamo il solito nesso tra condizioni sociali e politiche ed emergenza di radicalismo e tendenze estremiste in generale.

Indonesia e Filippine sono i due Paesi più preoccupanti o ce ne sono altri?

Nelle Filippine, come ho detto, circa un mese fa, i miliziani dello Stato Islamico hanno preso d’assalto e catturato consistenti settori di questa città a sud del Paese; in un mese l’esercito e le forze di sicurezza filippine sotto Duterte ancora non sono riusciti ad espellere tutti i miliziani in città. Il pungo duro di Duterte a cui siamo abituati può avere esattamente l’effetto che nessuno si augurerebbe, cioè, un ‘crackdown’ sulle minoranze musulmane che può portare veramente ad un’esplosione ulteriore di violenza e di risentimento in queste comunità. Inoltre, in dichiarazioni pubbliche, egli ha affermato che è disposto a radere al suolo i quartieri in cui si stanno trincerando i miliziani dello Stato Islamico, quindi, sono già stimate diverse centinaia di vittime civili. Tutti questi sono fattori che certamente non aiutano ad arrestare il problema dell’emergenza del radicalismo islamico nel Sud-est asiatico. Molto interessante è anche la questione in Cina, nello Xinjiang, una regione in cui vivono oltre venti milioni di Uyghur, cittadini di nazionalità cinese ma di etnia turcomanna a maggioranza musulmana che vive in un regime estremamente repressivo da parte di Pechino. Non possono praticare nessun culto e nessuna tradizione legata all’Islam, quindi, le donne non possono indossare il Hijab, le copie del corano vengono sequestrate, sono proibite espressioni pubbliche di fede religiosa come celebrazioni di ogni tipo, ed anche il Ramadan è proibito.

Queste componenti non fanno che aumentare il rischio futuro, non a breve termine; è un fenomeno in incubazione per il breve, lungo periodo. Questo si vede dalla grande presenza di miliziani Uyghur in Siria a combattere per lo Stato Islamico o per Al Qaeda che sono diventati famosi per il loro coraggio. La maggior parte dei miliziani rimasti a Mosul sono non iracheni e alcuni vengono proprio da queste aree qua e gli Uyghur sono tra i gruppi etnici che figurano più frequentemente tra i nomi degli attentatori suicidi proprio per questo estremo coinvolgimento nella causa. Da qui a dire che lo Stato Islamico in Iraq e in Siria migrerà e stabilirà una presenza diretta in quelle zone è molto meno probabile, perché, questi sono più movimenti endogeni, che si sviluppano più all’interno del Paese, piuttosto che avere un vero legame con lo Stato Islamico in Iraq e in Siria.

Quindi, si parla di gruppi affiliati e non di presenza diretta dell’IS?

Presenza diretta dell’Isis direi di no. Quando lo Stato Islamico ha deciso di stabilire una sua estensione in Siria, ha inviato parte della leadership;  al-Jawlani, il capo di Jabhat al-Nusra, originariamente era stato inviato da Abu Bakr al-Baghdadi in Siria per stabilire lì lo Stato Islamico. In questo caso, non si sta verificando una cosa del genere, non ci sono emissari del Califfato o, per lo meno, non c’è conoscenza di questi. Sono gruppi che si ispirano al brand globale dello Stato Islamico per perseguire un’agenda politica locale. Sì, l’obiettivo finale è lo stesso, stabilire un Califfato e un territorio su cui far rispettare la Sharia, però, non è un gruppo direttamente controllato, né direttamente amministrato dalla leadership dello Stato Islamico.

Quali sono i nessi rispetto ai territori precedentemente conquistati dall’IS? Perché l’IS punta a queste zone? 

Le similitudini sono poche, sia dal punto di vista territoriale che in altro. In questi posti lo Stato Islamico non può sfruttare la violenza settaria, una libertà di movimento attraverso confini che troviamo, invece, dall’altra parte e in più non siamo in Paesi a maggioranza araba, quindi, è un discordo completamente diverso. Lo Stato Islamico a partire dal 2015 è sottoposto, però, ad una crescente pressione nel Medioriente da qualsiasi fronte; il Sud-est asiatico presenta un po’ una via di fuga e un tentativo, anche un po’ ‘disperato’ di riaprirsi una strada verso dei nuovi territori a maggioranza musulmana. Non dimentichiamo, infatti, che l’Indonesia è il Paese con il più alto numero di musulmani al mondo. In Cina, nello Xinjiang ci sono oltre 21 milioni di cinesi di fede musulmana.

Quindi, è un potenziale ampio bacino di reclutamento. I Governi poi non sono così frammentati e così inefficienti come abbiamo visto in Siria e in Iraq dove, di fatto, l’IS ha potuto sfruttare l’assenza di un Governo o, comunque, una rivoluzione o una una guerra civile. In questi Paesi non siamo nella stessa situazione, ci sono Governi funzionanti, specialmente in Cina, non esiste la possibilità di un analogo all’Iraq e alla Siria, ovviamente. Le similitudini, quindi, si fermano lì, però, direi che non è una coincidenza il fatto che questo ha avuto inizio dal 2016, quando lo Stato Islamico ha capito che in Siria, in Iraq e anche in Libia non c’era più niente da fare. Il Sud-est asiatico, oggi, rappresenta un nuovo mercato per il radicalismo islamico, qualcosa che non si era visto prima e che garantisce un bacino per il reclutamento, nonché, una potenzialmente una via di fuga.