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Califfato alle corde: quattro nodi per il futuro dell’Iraq

11 Luglio 2017

Tra la sconfitta di Mosul e le voci sulla morte di al Baghdadi, l’Isis è sempre più debole. Ma per il Paese la sfida è evitare le divisioni settarie. Dal rischio insurrezione alle manovre curde: la situazione.

«Il fondatore e leader dello Stato islamico Abu Bakr al Baghdadi è morto»: affermazione già sentita, considerato che il cosiddetto Califfo è stato dato per spacciato almeno sette volte negli ultimi tre anni, eppure questa volta a confermare la notizia è l’Ossevatorio siriano dei diritti umani, una fonte solitamente attendibile (anche se spesso considerata troppo anti-Damasco). Se confermato, il decesso di al Baghdadi sarebbe un ulteriore colpo al gruppo jihadista, sconfitto nella roccaforte irachena di Mosul e assediato nella “capitale” siriana di Raqqa.

Nel 2014, sull’onda di successi militari che sembravano inarrestabili, era arrivato a controllare quasi tutto il Nord della Siria e un terzo dell’Iraq. Oggi vede ridotto il suo territorio a circa un terzo della massima espansione.

«L’ISIS NON FINISCE QUI». «La morte di al Baghdadi sarebbe una sconfitta pesante per un movimento che nel 2010 sembrava sull’orlo dell’estinzione e che proprio lui è riuscito a risollevare», ha spiegato in un rapporto per l’Ispi Andrea Plebani, analista specializzato in Medio Oriente. «Con la sua eventuale morte, non cesserebbe comunque di esistere lo Stato islamico», ha avvisato, «ma è certo che la perdita non è di poco conto. Pur senza essere apparso quasi mai, resterà una delle figure più influenti del panorama jihadista».

Al di là del destino del più influente terrorista del Medio Oriente dopo Osama bin Laden, cruciale sarà l’evoluzione del gruppo da lui creato in quello che molti hanno definito il Siraq. Unite da una simile concezione della religione e dallo stesso conflitto contro il mondo sciita, le regioni di Iraq e Siria in cui l’Isis ha prosperato hanno comunque una differenza fondamentale. In Siria il vuoto lasciato dall’Isis non è reclamato da un solo attore, ma da diversi. Cacciati i miliziani da Raqqa, e potrebbe volerci più del previsto, la questione diventerà una lotta tra questi soggetti per il controllo della regione. In Iraq, invece, il bastione jihadista entra automaticamente nel territorio del governo nazionale iracheno, sostenuto dalla coalizione a guida Usa.

1. Il rischio dell’insurrezione
«Il processo di sfaldamento del Califfato va avanti da ormai due anni, non credo che i leader del movimento siano rimasti ad aspettare di venire bombardati», ha spiegato Plebani, «c’è sicuramente pronta una strategia. La vittoria a Mosul è importante, ma non implica la fine del movimento. Molti jihadisti si sono già spostati nelle campagne e in alcune zone hanno ancora il controllo del territorio». Il rischio principale è quello di una futura insurrezione contro il governo nelle zone recentemente liberate. Le autorità irachene avvertono che moltissimi miliziani si sono tagliati le barbe e mischiati ai civili durante l’assedio di Mosul, pronti ad aspettare un’occasione migliore per tornare all’attacco. Ma a dare forza all’insurrezione, a meno di politiche appropriate (ed estremamente difficili da applicare), saranno le divisioni settarie nella popolazione.

«RIDARE SPERANZA ALLA PARTE SCONFITTA». Secondo Plebani, «la sfida sarà dare risposta alle istanze politiche e sociali della comunità arabo sunnita. Se non lo si fa, il rischio che questo fenomeno si ripresenti, magari con un nome diverso o con modalità differenti è elevatissimo. Se guardiamo alle città liberate dall’Isis, Ramadi, Falluja e Tikrit, vediamo che sono città ombra, dove mancano servizi di base, l’insurrezione jihadista è fortissima e dove il governo si è dimostrato non in grado di riportare la normalità o di ridare speranza alla parte sconfitta. E questo è il modo migliore di alimentare una rivolta».

2. Lo strapotere delle milizie sciite
Uno degli elementi più critici è la presenza in tutta l’area intorno a Mosul e giù fino a Baghdad dei gruppi paramilitari sciiti. Solo in parte controllati dal governo, rispondono sostanzialmente all’Iran e ai vari leader sciiti locali. Se il governo non riuscirà a tenerle a bada e a limitare la loro influenza su una regione prevalentemente sunnita come è quella intorno a Mosul, le divisioni settarie verranno sicuramente ravvivate.«Con la caduta di Saddam Hussein», ha spiegato Plebani, «l’Iran si è ritrovato in una posizione di forza tale da permettergli di infiltrarsi o esercitare la sua influenza in aree che gli erano precluse prima di allora. E soprattutto tramite controllo diretto e alleanze locali, di creare una sorta di continuità strategica che gli permette di andare dall’Iran fino al Mediterraneo, passando per Iraq, Siria e Libano».

L’ISIS ERA UN TAPPO. «La presenza dell’Isis era una sorta di tappo, perché impediva continuità in questo grande arco da Teheran a Beirut. Ora questa via è definitivamente riaperta». Se le istituzioni ufficiali irachene non riusciranno a mantenere il controllo politico e militare su tutto lo Stato, dando il via libera alla consolidazione di questa fascia a influenza iraniano-sciita, l’insurrezione della popolazione sunnita è altamente probabile.

3. La sfida per il potere nella capitale Baghdad
«Prima di al Baghdadi, l’Isis era un movimento sfrangiato e malvisto dalla popolazione locale. Grazie a lui si è ricompattato, tornando a trovare la fiducia di alcune fette del sunnismo iracheno», ha riassunto il ricercatore dell’Ispi, «nel 2011 ha capito che era il momento ideale per puntare alla rinascita dello Stato islamico, puntando soprattutto sulle divisioni all’interno dell’Iraq, sull’incapacità della leadership di far fronte alle divisioni». Ora la leadership si trova davanti lo stesso problema. Nella capitale, la partita per il potere si gioca tra tre figure chiave; il primo ministro Haider al-Abadi, l’ex premier Nouri al-Maliki e il popolare imam sciita Muqtada al-Sadr.

SCONTRO TEHERAN-WASHINGTON. Teheran punta a rafforzare al Maliki, Sadr e importanti leader delle milizie sciite che hanno contribuito alla campagna contro l’Isis. Washington, al contrario, punta tutto su al Abadi per tenere a bada le mire iraniane sul Paese. Solo un bilanciamento tra i due grandi “protettori” dell’Iraq, Usa e Siria permetterà di ricostruire sopra le macerie dello Stato islamico senza creare le condizioni perché se ne formi uno nuovo.

4. Le rivendicazioni dei Peshmerga curdi
A complicare ulteriormente il quadro è la questione del Kurdistan iracheno, regione nel Nord-Est del Paese i cui combattenti sono stati fondamentali per contrastare l’avanzata dell’Isis fin dal 2014 e per dare il via alla riconquista di Mosul. In questi anni i Peshmerga hanno conquistato vasti territori che non hanno nessuna intenzione di abbandonare (prima di tutti la provincia di Kirkuk, ricca di petrolio).

Erbil, la sua capitale, pretende ora da Baghdad e dagli Usa un riconoscimento per quanto fatto.

REFERENDUM IL 25 SETTEMBRE. Di fatto già una regione autonoma, il Kurdistan vuole ora l’indipendenza e per questo ha indetto un referendum il 25 settembre. Difficilmente potrà ottenerla, ma Baghdad dovrà in qualche modo riuscire a rispondere alle istanze che vengono dalla minoranza, a meno di non voler rischiare lo scontro aperto.