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Accordo franco-iraniano sul gas: sfida agli Stati Uniti

7 Luglio 2017

L’intesa evidenzia le profonde divergenze vigenti tra Europa e Usa

Nei giorni scorsi, la Total e il governo iraniano hanno siglato un accordo da quasi 5 miliardi di dollari ai sensi del quale l’azienda francese va ad affiancare i cinesi della China National Petroleum Corporation (Cnpc) nello sfruttamento del colossale giacimento gasifero South Pars, situato nel bel mezzo del Golfo Persico e condiviso con il Qatar. Nel dettaglio, l’intesa contempla la formazione di un consorzio in cui la Total detiene il 50% delle quote, seguita dalla Cnpc con il 30% e dalla locale Petropars con il restante 20%, e impone all’azienda francese di investire circa un miliardo di dollari per la messa in pratica delle proprie avanzatissime tecnologie di attivazione dei pozzi off-shore.

Il colpo messo a segno dalla Total rappresenta un chiaro atto di sfida nei confronti degli Stati Uniti, poiché da un lato consente ai francesi di aprirsi la strada in un promettentissimo mercato come quello iraniano contro il parere dell’amministrazione Trump e del Congresso, e dall’altro evidenzia che Parigi non teme le ritorsioni economiche Usa, le quali da svariati decenni a questa parte costituiscono un’arma strategica potentissima nell’arsenale di Washington.

La supremazia geopolitica conquistata dagli Stati Uniti a partire dalla Seconda Guerra Mondiale si è infatti riflessa anche in ambito finanziario, sotto forma di controllo capillare statunitense sui sistemi informatici mediante i quali si espletano tutte le transazioni effettuate in giro per il mondo. La Federal Reserve, la National Security Agency (Nsa) e le società di carte di credito (Visa e Mastercard in primis) assicurano a Washington la possibilità di supervisionare i flussi finanziari, ottenere accesso a miliardi di dati digitali e tracciare le operazioni di pagamento internazionale portate a termine  attraverso le banche. Tutto grazie al ruolo centrale nel commercio internazionale di cui è titolare il dollaro e all’egemonia – strettamente connessa – esercitata dalle imprese statunitensi sulla finanza internazionale. Fattori talmente determinanti da sancire di fatto il primato degli interessi statunitensi sul quelli del resto del mondo, anche a dispetto delle più elementari norme del diritto internazionale.

Lo si è visto nel 2014 proprio nei confronti della Francia, quando, proprio mentre il governo di Parigi si apprestava ad onorare un accordo con la Russia per la consegna di due navi portaelicotteri classe Mistral e l’addestramento al loro utilizzo di personale russo in cambio di 1,6 miliardi di dollari, gli Usa hanno comminato una multa di circa 9 miliardi di dollari a Bnp Paribas, rea di aver intrattenuto rapporti commerciali con nazioni sottoposte a sanzioni come Iran e Sudan, in violazione del National Defense Authorization Act dell’anno fiscale 2012, il quale decretava il boicottaggio della Banca Centrale iraniana determinando l’esclusione dal sistema finanziario statunitense di qualsiasi ente coinvolto in transazioni con Teheran. Circostanze che indussero il ministro delle Finanze francese Michel Sapin a bollare le ‘sanzioni extra-territoriali’ applicate dagli Usa come un vero e proprio abuso di potere, e a sottolineare la necessità di provvedere a un processo di sganciamento del dollaro nell’ottica di un generale ‘ribilanciamento monetario‘ nei pagamenti internazionali che contempli l‘utilizzo delle valute dei Paesi emergenti, i quali stanno acquisendo un peso crescente nel commercio globale.

La sortita di Sapin, lanciata dopo le dure prese di posizione contro il sistema dei petro-dollari, identificato come il maggior responsabile degli squilibri finanziari mondiali, espresse dall’amministratore delegato della Total Cristophe De Mergerie (deceduto in uno stranissimo incidente in Russia), si è però rivelata vana, dal momento che la Francia non ha dato alcun seguito a queste prese di posizione, decretando per giunta la sospensione della consegna delle Mistral anche a costo di infliggere un colpo durissimo ai cantieri navali di Saint-Nazaire e di rimborsare la cifra già versata da Mosca. Il medesimo atteggiamento passivo con cui Parigi ha incassato il colpo, evitando di far scudo a Bnp Paribas e di difendere i propri interessi economici, è stato adottato l’anno successivo anche dalle autorità tedesche. Nel 2015, infatti, gli Usa hanno cercato di assestare un colpo micidiale alla politica del ‘piede in due staffe’ condotta dalla Germania tramite la Federal Reserve di New York, la quale ha bacchettato tacciato pubblicamente Deutsche Bank di avventurismo, sostenendo che la sua enorme esposizione ai derivati (pari ad oltre 55.000 miliardi a fronte di circa 520 miliardi di depositi; una situazione non molto diversa da quella di Jp Morgan Chase, sul cui operato la Fed non ha invece avuto nulla da obiettare) rappresenta un ‘rischio sistemico’, provocando una forte flessione borsistica del titolo.

Pochi mesi dopo, la stessa Deutsche Bank è finita nuovamente nel mirino delle autorità Usa, che hanno ritenuto il colosso tedesco responsabile di riciclaggio con la Russia attraverso triangolazioni che avrebbero aggirato le sanzioni. Secondo il ‘Financial Times’, alcuni clienti russi avrebbero acquistato titoli in rubli tramite la filiale di Mosca della Deutsche Bank per poi rivenderli incassando oltre sei miliardi di dollari a Londra. Gli Stati Uniti hanno assunto la giurisdizione del caso a causa dell’utilizzo di dollari nelle operazioni e del coinvolgimento di Tim Wiswell, cittadino statunitense ed ex dipendente di Deutsche Bank. È interessante notare che poco prima che la Fed sferrasse la bordata contro Deutsche Bank, il sempre ben informato sito ‘Zero Hedge’ si domandava profeticamente: «dal momento che il più grande avversario alle sanzioni russe in Europa è, di gran lunga, la Germania – nonostante quello che la Merkel dichiara ogni giorno – e dal momento che la Russia è sicura di contrastare gli Stati Uniti nei prossimi mesi, quale sarà l‘azione giuridica che gli Stati Uniti monteranno nei prossimi mesi nei confronti della Deutsche Bank, prima come ricatto e poi come ‘punizione’ per aver osato avvicinarsi al più odiato avversario della superpotenza americana? Dopo tutto, se è successo con Bnp Paribas, potrebbe accadere ovunque in Europa – un continente che, nel bene o nel male, è vincolato al gas di Putin».

Come spiega il giornalista economico Norbert Häring: «qualsiasi banca operante nel mercato internazionale è costretta a seguire le direttive del governo degli Stati Uniti con le minacce, dal momento che incappare in una revoca della licenza di operare negli Usa o nel divieto di impiegare dollari comporta inesorabilmente incamminarsi verso la bancarotta. Basti pensare a Deutsche Bank, che ha dovuto negoziare con il Dipartimento del Tesoro americano per decidere se pagare una multa di 14 miliardi di dollari, e quindi fallire, o cavarsela con sette miliardi e sopravvivere. Quando si ha la facoltà di far fallire anche le più grandi banche di grandi Paesi stranieri, si detiene automaticamente il potere anche sui loro governi».Alla luce di ciò, si comprende il potenziale dirompente insito all’accordo raggiunto tra la Total e il governo Teheran, il quale segna una clamorosa una rottura rispetto agli anni passati, durante i quali la paura delle sanzioni Usa ha inibito qualsiasi intesa tra le imprese europee e l’Iran. La mossa francese appare peraltro coerente con i segnali inviati dal presidente Emmanuel Macron subito dopo l’insediamento all’Eliseo. Verso la metà del giugno scorso, Macron ha infatti sostenuto, in un’intervista rilasciata a diversi giornali europei, la necessità di instaurare un rapporto di collaborazione con la Russia di Putin, e dichiarato che la rimozione di Bashar al-Assad non è assolutamente una priorità francese. In seguito agli attentati di matrice fondamentalista (Isis) che hanno colpito l’Iran proprio in quei giorni, lo stesso presidente ha prontamente telefonato al suo omologo iraniano Hassan Rouhani per esprimergli solidarietà e la piena disponibilità francese a organizzare un vertice internazionale contro il terrorismo. Ed appare altrettanto significativo il fatto che l’intesa energetica franco-iraniana sia stata raggiunta in seguito alla visita a Roma del ministro degli Esteri qatariota Mohammed al-Thani, nel corso della quale è stato ufficializzato il rifiuto di Doha di adempiere alle tredici richieste presentate da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Baharain ed Egitto in cambio della fine dell’embargo decretato sulla base di accuse al piccolo emirato di supportare il terrorismo e di intrallazzare con Teheran.

Il Qatar che, oltre ad essere da tempo è impegnato ad effettuare transazioni in yuan cinesi in un’ottica di progressivo avvicinamento a Pechino e di distacco dal dollaro, ha infatti «avviato un dialogo con l’Iran rivolto a trovare una soluzione di compromesso che permetta lo sfruttamento condiviso del gigantesco giacimento gasifero South Pars-North Dome […]. Sembra che i due Paesi abbiano concordato la realizzazione di un gasdotto irano-qatariota dalla Persia al Mediterraneo – forse attraverso la Turchia – che permetta all’emirato di esportate il proprio gas in Europa. Come contropartita, Doha avrebbe accettato di revocare il proprio supporto alle frange terroristiche operanti in Siria; un colpo enorme per il piano saudita-statunitense di balcanizzare la Siria e assumere il controllo dei flussi di gas della regione».

Circostanze che, come si vede, rendono particolarmente azzardata la mossa francese. Il fatto che l’accordo con Teheran ottemperi a tutte le regole internazionali, come puntualmente messo in chiaro dai vertici di Total, non è infatti assolutamente sufficiente a mettere la grande azienda francese al riparo da ipotetiche ritorsioni statunitensi; proprio lo scorso dicembre, la ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’ ha documentato, in una sua dettagliata inchiesta, come alcuni dipendenti di una società creditizia tedesca intenta a condurre affari del tutto legali in Iran si siano improvvisamente ritrovati i propri nomi in una lista nera di terroristi stilata dagli Stati Uniti. Come conseguenza, l’azienda è stata colpita da sanzioni che hanno fortemente limitato il suo accesso ai sistemi che gestiscono le transazioni finanziarie, e non è riuscita nemmeno a rimediare una società di traslochi disposta a trasferire i suoi mobili.

La questione delle sanzioni finanziarie e del loro uso (o abuso) politico appare complessa e spinosa, e rimanda a un concetto espresso già nel 1990 da Edward Luttwak, il quale riteneva che: «nelle relazioni internazionali gli strumenti del commercio stanno sostituendo quelli militari: con il capitale disponibile al posto della potenza di fuoco, l‘innovazione civile al posto dello sviluppo tecnico-militare e la penetrazione dei mercati al posto di basi e fortini». In ciò, il noto politologo statunitense andava a sdoganare un tema che sarebbe stato approfondito sul finire degli anni ’90 da due ufficiali dell’esercito cinese in un libro in cui si preannunciava che, di lì a poco, i conflitti non sarebbero più stati caratterizzato dall’impiego degli strumenti convenzionali (carri armati, navi da guerra, caccia, cannoni, ecc.), ma dal crescente ricorso alle tecniche asimmetriche del terrorismo e, soprattutto, della destabilizzazione finanziaria. Cosa che, di fatto, sanciva l’inscrizione della «logica della guerra nella grammatica del commercio», come avrebbe affermato Clausewitz.